Una storia di Romina Casagrande per la “Villa Freischütz”

La collezione della “Villa Freischütz” era fonte di ispirazione per la scrittrice meranese Romina Casagrande. Lei è affascinata particolarmente da Isabel Ugarte (1842-1938), la cognata peruvania di Franz Fromm, e ha scritto questo racconto. Grazie di cuore, Romina!

Cartolina da…

Parigi 1906

La donna camminava a passo svelto e sicuro, badando che gli stivaletti non affondassero nelle buche in cui la pioggia, che a quell’ora del mattino cadeva ancora fitta, si raccoglieva tintinnando come argento vivo. Era così, Parigi: una città di grandi viali circondati da tigli in fila come diligenti soldati, parchi dalle aiuole curate, caffè con thonet rivestite di porpora su cui sedersi mollemente per sorseggiare cioccolata speziata. E – sospirò, svuotando i polmoni di ogni residuo di entusiasmo – pioggia. Tanta, fastidiosa pioggia, che scendeva da un cielo capriccioso che copriva la città come una volta di Michelangelo, ma priva della sua luce.

Raddrizzò la schiena e aggiustò la borsa che pendeva a tracolla sulla spalla. Tuttavia era bella Parigi, pensò. Una delle città in cui aveva deciso di fermarsi, anche se ogni viaggio – lei lo sapeva bene – aveva la sua scadenza. Ma cambiare spesso casa non era forse un modo per sentirsi liberi? Il pensiero si arenò come una zattera spinta nella rena da un’onda furiosa e lei sentì un nodo stringerle la gola, corde attorcigliarsi attorno alle gambe, alla vita, serrarle il cuore. Cercò con le dita il cuoio sicuro della borsa, lo scoglio cui aggrapparsi in attesa di avvistare di nuovo terraferma. Nella sua tasca interna erano custoditi due biglietti, che portava sempre appresso. Era così diverso, il loro contento. Uno, quello di carta brunita, veniva dalla città a sud dell’impero, un minuscolo paese cinto fra le montagne, rocce di boschi umidi da cui sbucavano le torri tozze e le mura ben conservate di castelli medievali. Era la città dei suoi parenti, del cognato e degli adorati nipoti. L’altro, invece, portava su carta gialla il timbro del luogo che avrebbe raggiunto quella mattina – come molte altre – nonostante la pioggia, le pozzanghere, le calze inumidite sotto la punta zuppa degli scarponcini e la coda del vestito ormai inzaccherata di fango. Nello spazio tra quei due biglietti c’era il suo mondo, tutto quello che lei, Isabel Ugarte, era stata e avrebbe mai potuto essere. Non era un pensiero cattivo, tantomeno triste. Semplicemente, le cose erano andate così.

Superò le carrozze parcheggiate al bordo della strada, rivolgendo un sorriso gentile ai cocchieri che si levavano il cappello per invitarla a salire. Perché mai una donna tanto elegante avrebbe dovuto percorrere tutto quel viaggio a piedi, sotto un cielo che sputava acqua e raffiche di vento, se bastava salire uno scalino e lasciarsi avvolgere dal velluto che imbottiva il caldo abitacolo trainato dai cavali?

Isabel sorrise: perché camminare era un’altra delle piccole scelte concesse e che la facevano sentire libera. Le piaceva ascoltare il sangue che fluiva irrorando i muscoli e pompando forte il cuore, lasciarsi distrarre da un vicolo o, come in quell’istante, dall’odore acre delle baracche del maquis.

Gli interventi del prefetto Haussmann avevano trasformato Parigi da sporco villaggio medievale, dalle viuzze contorte e lerce in cui si raccoglievano liquami e odori di ogni sorta, alla grande capitale di marmi bianchi e lampioni di luce brillante che respingevano le ombre di qualsiasi notte. Ma il maquis no, quello nessuno aveva potuto cancellarlo con un morso di pala. Se ne stava ancora lì, affacciato al boulevard come una donna curiosa, scompigliata dal poco sonno di una notte in festa. Isabel lo sentiva, avvertiva la sua forza blasfema e selvaggia scorrerle sulla pelle. I legni sconnessi delle sue casupole dai tetti rotti, i cespugli di menta selvatica che si allungavano come dita, arrampicandosi sui muri, nelle crepe dei viali, fino a coprire in parte la povertà di un mondo che, solo a un passo, al di là del boulevard Hausmann, si trasformava nel sogno che i derelitti del maquispotevano soltanto sperare di avvistare, coprendo con un palmo gli occhi per ripararsi dal sole che si rifletteva nelle enormi finestre dei palazzi bianchi oltre il viale. Era da lì, da quelle baracche povere ma la cui sciatta tristezza era coperta da sottili strati di vernice colorata, che arrivavano i nuovi artisti, ai piedi della collina dei martiri, ciascuno a trascinare la propria croce insieme ai vestiti strappati e i volti troppo sinceri per nascondere tutti i loro sogni, per non gridare quanto avrebbero voluto salvarsi. Il grande Renoir abitava ancora laggiù, insieme alla famiglia, con una moglie con le guance tonde e rosse come quelle di una contadina. Si diceva fossero molto felici.

Un signore con rotondi occhiali di corno alzò lo sguardo e indugiò su di lei un istante di troppo che bastò a pungerla, accelerando il respiro. Ma non erano i suoi occhi neri che stava guardando – rifletté come a rassicurarsi – né la carnagione olivastra, ad aver destato la sua attenzione. Doveva essere stato il suo portamento, sì. La schiena delicatamente arcuata in una linea a S che risaltava così bene sotto il bolero ricamato e il colletto alto.

Oppure – ridacchiò tra sé – si era chiesto cosa contenesse quella borsa da uomo, tanto pesante che avrebbe potuto nascondere l’armamentario di un dottore. Una borsa molto speciale.

Cosa ne aveva fatto della sua libertà? Ci aveva comprato quella borsa e tutto il suo prezioso, bizzarro – a detta di molti – contenuto.

La pioggia cadeva senza tregua, cancellando i confini delle cose e lei, Isabel Ugarte, doveva soltanto camminare evitando le pozzanghere.


Si fermò di fronte ai muri dorati dell’imponente edificio, il fiato che graffiava la gola e le guance arrossate. Fece un profondo respiro, stringendo la borsa al fianco, e prese dalla tasca il biglietto con il timbro. Non era che un foglio di carta consumato e ingiallito che riportava una data ormai vecchia, ma lei sperava sarebbe bastata come lasciapassare.

La pioggia rimbalzava sui tetti neri e sulle cupole d’ardesia. Scendeva in rigagnoli lungo il vetro delle finestre che intrappolava la poca luce che venava il cielo. Lì avevano vissuto i re di Francia, con le loro mogli, le loro amanti, i loro servi bugiardi. Fino a quando Luigi XIV aveva scelto di proteggersi dall’invidia della nobiltà, barricandosi in un casino di caccia che galleggiava sull’acqua insalubre delle paludi e aveva tumulato se stesso insieme a quella nobiltà di cui temeva l’invidia. Stringere a sé, legare, per controllare, in una gabbia dalle sbarre dorate che a guardarle dall’interno potevi scambiarle per colonne di un tempio. Già, perché il casino di caccia era stato trasformato in una reggia, e la corte che lo abitava, in una sfarzosa compagnia che attraversava le sue infinite stanze come la scena di un teatro.

La nascita di Versailles aveva avuto un pregio: aveva lasciato dietro di sé il Louvre. Il maestoso palazzo dai tetti d’ardesia da cui il re era fuggito una notte, e che ora si stagliava davanti a lei emergendo dalla pioggia come il castello fatato di Avalon, era diventato il tempio dell’Arte, l’involucro in cui era custodito il meglio che l’ingegno di pittori e artisti avesse donato al modo.


E lei, Isabel Ugarte, ora era lì dentro, con la sua pesante borsa da uomo che a guardarla non avresti indovinato cosa celasse, e in mano un foglietto ingiallito – il primo dei due biglietti custoditi nella tasca –  che l’usciere le aveva appena restituito con un sorriso composto.


“Straniera?”

Isabel si voltò verso la voce.

“Ho sentito come ringraziava l’usciere. E non ho potuto fare a meno di notare la sua cadenza.”

Isabel scrutò l’uomo senza rispondere.

“Spagnola? Lo sono anch’io” le sorrise. “Conosce forse un nome meno francese di Ramon?”

Isabel sospettava che ora sarebbe toccato a lei doversi presentare. Eppure non aveva alcuna voglia di raccontare di sé. Ma tanto valeva… L’uomo le si era affiancato e sembrava intenzionato ad accompagnarla – anche se ‘scortarla’ sarebbe stata la definizione più adatta – ovunque lei avesse dovuto arrivare.

“Isabel Ugarte.”

“Ugarte…” ripeté lui, accarezzandosi il mento, lo sguardo obliquo, come a cercare una risposta che non arrivava.

“Sono nata in Perù. Ma è da molto che non ci torno.”

“Sud America” esclamò l’uomo, gli occhi scuri accesi di curiosità. “E che ci fate da queste parti? Siete venuta ad ammirare le opere di Rubens o la nuova collezione di impressionisti lasciata da monsieur Caillebot?”

“Non proprio”, Isabel avrebbe voluto svelare il suo piccolo segreto, quello che aveva a che fare con la sua borsa. Ma anche quella era libertà: non rivelare, godere intimamente di un piccolo privilegio che si era così tenacemente conquistata.

“Ogni volta che metto piede qui dentro, mi prende un senso come di malinconia”, continuò lui, arresosi alla scarsa loquacità della donna. “Ci vengo per lavoro, sono un pittore.”

“Non mi dica, un pittore.”

“Già”, rispose lui senza nascondere un sorriso orgoglioso che piegava i baffi in due sbuffi dorati. “Vengo qui per imparare dai grandi che ci hanno preceduto, ma non posso fare a meno di pensare che ogni oggetto, contenuto in queste sale, non sia che il frutto di rapine e massacri.”

“Dite sul serio?”, ora Isabel era attenta, concentrata sulle parole dell’uomo, che annuiva con un profondo cenno del mento.

“I tesori della corona confiscati ai re mandati al patibolo, gli ori rubati alla Chiesa dai rivoluzionari sans culottes o quelli lasciati dai fuggitivi nelle vecchie ville alle quali i repubblicani appiccarono il fuoco, gli oggetti depredati da Napoleone durante le campagne militari in Egitto… Serve qualche altro esempio?”

“Non ci avevo mai pensato”, ed era vero.

“Voi venite dal Sud America e avete sangue…”

“Misto”, rispose lei puntando il suo sguardo fiero e fermo nel suo.

“Misto… Intende, indios?”

“Se vuole sapere se sono la figlia illegittima di qualche unione nata dal capriccio di un ufficiale bianco, incapace di tenere ben chiusi i calzoni, no, monsieur  Ramon. Mio fratello, Alfonso Ugarte, è morto da eroe, combattendo la battaglia d’Arica, in Cile. È stato tra i valorosi che difesero la città. È morto a trentatré anni e gli hanno dedicato una statua. Si trova nella piazza centrale.”

“Una statua” ripeté lui, “gli hanno dedicato addirittura una statua”, disse per nulla commosso. “Si sono presi la sua giovane vita e dalla polvere di quelle ossa hanno plasmato un fantoccio che servirà da posatoio ai colombi.”

“Si è comportato con onore e coraggio. Ha difeso la città fino all’ultimo”, rispose Isabel, sforzandosi di mantenere ferma la voce, inarcata dalla rabbia e dal dolore. Non passava giorno senza che il ricordo di Alfonso e della sua ultima agonia, senza che il pensiero della paura di un uomo alle strette, che guardava in faccia la morte, non le facesse scorgere nelle venature rossastre del tramonto al di là della finestra il sangue che sgorgava dalle ferite di suo fratello, steso a terra, solo, il nobile corpo martoriato.

“Mi perdoni, non volevo sembrarle insensibile, ma ho sempre pensato che quella del Pacifico fosse una guerra sciocca, come tutte le guerre. Il Perù doveva tirarsene fuori e lasciare che Cile e Bolivia sbrogliassero i loro interessi da soli, accapigliandosi fino a stancarsi, come bambini capricciosi.”

“Esiste l’onore, monsieur Ramon. I patti, le alleanze.” Le promesse, pensò Isabel. Quelle che stringono cuori e anime in nodi tanto indissolubili che nessuna guerra, nessun uomo potrebbe osare spezzare. Una promessa simile a quella che era scritta con inchiostro nero su di un foglio di carta brunita, piegato con cura nella tasca interna di una borsa da uomo troppo pesante per lei.

Quando furono sotto il dipinto, la sfilò dalla spalla e la appoggiò sul pavimento di legno. Estrasse senza fretta la tela, i colori (cinabro, terra di siena, indaco), la pezza di lino e i pennelli di martora. Sfilò lentamente la stoffa che copriva la superficie della tela e restò a guardare il dipinto mentre, dietro di lei, avvertiva il silenzio lasciato dal fiato spezzato di Ramon e ne intuiva il volto sbigottito.

“Lo ha fatto lei?”

Isabel annuì. “Una copia.” Lo sguardo rimbalzava dalla tela fra le sue mani a quella, simile, appesa davanti a loro. “Una copia del ritratto di Jean Baptiste Greuze che ha di fronte. La cruche cassee. È la fanciulla della favola di Lafontaine, Perrette, la lattaia.”

“La conosco bene, quella storia” incalzò l’uomo. “La fanciulla che porta il latte al mercato, perdendosi a fantasticare lungo il tragitto su tutti i modi nei quali potrà spendere la sua piccola fortuna.”

“Ma poi il latte si rovescia…” disse Isabel posando il quadro.

“E lei perde tutti i suoi sogni”, Ramon stette in silenzio, e per qualche istante la stanza parve galleggiare come un oceano muto intorno a loro, una distesa liquida che li stringeva in onde possenti e delicate come broccato. “E lei, lei cos’ha perduto, Isabel?”

Isabel lo guardò, le labbra serrate, gli occhi fermi e silenziosi che indagavano in quelli di lui.

“Soltanto qualche macchia di colore sullo sfondo” disse, fingendo di non aver compreso che l’uomo stava riferendosi a qualcosa di più intimo e personale. “Ho realizzato questo quadro qualche tempo fa, ma queste macchie sono rimaste e voglio correggerle. Il quadro sarà un regalo.”

L’uomo scosse la testa e la osservò con un sorriso benevolo. “A volte è meglio non aggiustare. Non trova noiosa, troppa perfezione? Crede davvero che le macchie di luce di Renoir non siano altro che composte sbavature?”, disse abbassando la voce, che prese il moto lento e profondo di un fiume che si insinua nell’oceano.

Altri uomini si erano affacciati alla sala e richiamavano Ramon, ridendo e allungando le braccia. Lui fece loro cenno di aspettare, si piegò in un breve inchino. Doveva andare. “Le auguro di ritrovare tutti i suoi sogni, Señora Isabel.”

Isabel avvampò. Nessuno la chiamava così da molto tempo e sentire il suo nome pronunciato dalla calda voce spagnola le fece ricordare con nostalgia più furiosa il verde delle foreste della sua terra, il profumo del suolo nero, scaldato dal sole. Ma si tenne ferma, decisa a non lasciarsi portare via da quel vento che sapeva di rocce e di mare.

“Però mi ha ingannato”, disse l’uomo, alzando la voce perché lei potesse sentirlo mentre raggiungeva gli amici.

“Perché mai?”

“Non mi ha detto di essere una pittrice.”

“Lei non me lo ha domandato.” I baffi dell’uomo si sollevarono con un accento ilare che risalì fino alle pupille scure e le fece brillare come agata attraversata dal sole. Isabel restituì il sorriso.


Mancavano pochi particolari al quadro. Il colore era colato in minuscole macchie sullo sfondo. Nulla di irreparabile – occorreva avvicinare di molto il viso alla tela per notare la sbavatura – ma sarebbe stato un regalo, un regalo per i nipoti, e non voleva che arrivasse loro sciatto, neppure di una sola imperfezione.

Isabel aveva imparato da sola a dipingere. Nessun maestro, nessuna scuola, era stato semplice e naturale, come imparare a nuotare o a spingersi sull’altalena. E aveva provato la stessa felicità, semplice, di quando da bambina sentiva il vento, che spirava dall’oceano, infilarsi fra i capelli e solleticarle la nuca.


Aveva lavorato pazientemente tutto il pomeriggio, con la medesima cura e il medesimo entusiasmo con cui qualche anno prima aveva realizzato quello stesso quadro.

Seduta su una panchina, ad annusare la sera limpida che sapeva ancora di pioggia, con la sua borsa richiusa e il suo quadro ripulito ben avvolto nella tela, si chiedeva come sarebbe stato tornare a Villa Freischütz, nella piccola città fra le montagne del Tirolo.

Intanto, guardava Parigi come la lattaia di Lafontaine scrutava piena di ammirazione la sua brocca di latte. E sentiva di aver realizzato i suoi sogni. Parigi era abbastanza vasta per contenerli tutti. C’erano artisti da incontrare e quadri da studiare, tele su cui dipingere, nuovi colori da scoprire e mescolare. E quando Parigi non fosse più bastata, ci sarebbero state la calda Barcellona e l’austera Berlino.

Ora, però, la attendevano Franz e i nipoti, il giardino di Villa Freischütz con i suoi alberi altissimi che spandevano profumo di resina e le stanze dai soffitti fino al cielo e il parquet a spina di pesce.

Prese dalla tasca interna della borsa il secondo biglietto, un foglio di carta brunita, e sorrise della grafia incespicante.


“Dichiaro oggi, 14 ottobre 1906, dinnanzi a testimoni: non si lascerà tentare in alcun modo dal restare a vivere in Perù, sua patria.” (1)

Uno dei nipoti aveva pure apportato la firma del notaio, ma lo si leggeva dal tracciato incerto delle lettere che si trattava di uno scherzo.

Già, uno scherzo.

Ma c’era qualcosa di vero e di caparbiamente serio, in quella buffa messinscena allestita per divertimento, pensò mentre sentiva la brocca scivolarle via dalle mani, il braccio all’improvviso leggero, e rumore di ceramica che si schiantava a terra e si rompeva in mille schegge che rimbalzavano sul marmo stridendo come gusci rotti di conchiglia.

E quel rumore schiacciava il cuore, le toglieva il fiato.

Per un istante le parve di vedere Louise, la moglie dello zio, camminare attraverso le stanze della vecchia casa – quella in cui abitavano prima di Villa Freischuetz – e sgridare bonariamente Franz che accumulava opere e quadri, pensando soltanto alla sua collezione e inseguendo mercanti. Avrebbero finito per essere scacciati dalle statue che si prendevano tutto il posto, lo ammoniva Louise ridendo. Ed era un ricordo felice. Poi però, all’improvviso, la vide camminare pallida nel parco, abbracciata a Franz, e seguì la sua figura consumata fino a quando sfumò nel verde del giardino. Una macchia di colore appena più densa dell’erba. Quello era l’ultimo ricordo che conservava di Louise. Louise, che non aveva fatto in tempo a vedere Villa Freischuetz.

Riempì i polmoni di aria e la scacciò fuori per ritrovare le forze e un pensiero felice.

Non vedeva l’ora di riabbracciare i nipoti. Era una zia importante per loro e a loro aveva fatto una promessa. L’aveva scritta con inchiostro nero su un foglio di carta brunita.

Non sarebbe più andata in Perù, che voleva dire: non lasciarli mai soli, esserci, anche al posto di una madre che non avevano più. Ed era un pensiero caldo, che la faceva stare bene. Esserci per qualcuno ti fa sentire importante.

Allora perché sentiva quel vuoto dentro mulinare nello stomaco e attorcigliare le viscere?

Respirò l’odore delle baracche del maquis. Quell’odore selvaggio che le sarebbe mancato sempre. E poteva trovare, proprio come la lattaia di Lafontaine, mille modi per spendere la sua libertà.

Ma la brocca si era rotta e lei stava lì, a chiedersi cosa fosse quella libertà. Dal momento che non avrebbe più riabbracciato Alfonso, né si sarebbe lasciata accarezzare dalla foresta, o nel momento in cui pensava a quella famiglia spezzata, alla sua promessa, e ai consigli che il povero Franz le elargiva nelle sue lettere come un padre premuroso. Come un uomo che non voleva più perdere nessuno degli affetti che stringeva a sé con avidità di vita. Ed era tutto lì, su quel biglietto, in una promessa fatta per gioco.

Guardò il quadro. Non si vedevano più le macchie.

Fece un respiro profondo. Pensò al pittore che le aveva detto qualcosa, sulla perfezione, che ora non ricordava.

Sapeva però che quella mattina non era certa che sarebbe riuscita. Eppure, ce l’aveva fatta.

E sarebbe stato così.  

Avrebbe scelto i colori più belli. Indossato i vestiti migliori. E avrebbe trovato la sua giungla nel giardino di villa Freischütz. Forse in ogni giardino in cui avesse messo piede.

E avrebbe trovato un po’ degli occhi di Alfonso, in ciascuno dei suoi nipoti.

Il vento del maquis le scompigliò i capelli e le rubò il cappello che ruzzolò nella polvere. Lo raccolse, ma, quando stava per stringere il fiocco sotto il mento, si fermò. Se lo sfilò lentamente, lasciando che il vento attorcigliasse le ciocche sfuggite alle forcine.

In fondo, pensò, avrebbe trovato mille modi per essere libera e avrebbe riaggiustato molte volte la sua brocca.

Molte, fino a quando fosse stata libera davvero.


(1) Declaro en esta de Meran el dia 14 de octobre de 1906 ante testigos: de jue no se dejaria tentar por nada de quedarse para vivir en el Perù, su patria.