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Podcast: Il mantello etiope: puntata 1 “Avvio”
Villa Freischütz, Fondazione Navarini-Ugarte, Merano
Autrice: Ariane Karbe
CANZONE DI MARION MORODER “Un lungo viaggio” (ritornello)
Ariane Karbe (AK): Benvenuti e benvenute alla Villa Freischütz! In questo momento mi trovo nel sottotetto della villa, dove viene conservata la maggior parte degli oggetti. Dovete immaginare che intorno a me sia stato utilizzato praticamente ogni millimetro, ci sono scaffali con decine di casse. Ed è di una cassa in particolare che tratteremo oggi, eccola qua: è piuttosto grande, nera con un’etichetta che dice ‘abito cerimoniale: velluto con ricami in oro e argento – Etiopia (Menelik).’ Mi ha incuriosita da quando ho iniziato la collaborazione come libera curatrice, qui nella squadra di Villa Freischütz: Menelik, l’imperatore abissino! Le casse erano state nominate velocemente durante una prima inventariazione, ne parleremo a breve. Ma se davvero fosse giusto ciò che è scritto, se davvero il mantello lussuosamente ricamato fosse appartenuto al sovrano abissino, cosa ci fa in un’incantevole villa di Maia Alta, a Merano in Alto Adige? Come ci è arrivato? E – questa la domanda che mi affligge di più – è qui che dovrebbe essere? O dovrebbe piuttosto tornare in Etiopia? Questo è ciò che vogliamo finalmente scoprire.
MUSICA
Il mantello etiope è questo: una storia di guerra, colpa e dimenticanza. È anche la storia di come un piccolo museo possa dedicarsi a domande cruciali. Questo podcast è una produzione della Fondazione Navarini-Ugarte e fa parte delle iniziative dell’anno museale dell’Euregio. Io sono Ariane Karbe, drammaturga delle esposizioni.
Puntata 1: Avvio
MUSICA
Villa Freischütz è un museo molto giovane, aperto solo nel 2019. Qui, nella villa, un tempo e per decenni, ha vissuto la famiglia del collezionista d’arte Franz Fromm. Verso la fine vi abitò sua nipote Rosamaria, rimasta da sola per diversi anni. Quando morì, nel 2013, lasciò indicato nel proprio testamento che Villa Freischütz sarebbe dovuta diventare un museo. Per poter realizzare questo suo desiderio, si sono dovuti inventariare tutti gli oggetti. E di corsa. Dovevano essere identificati, fotografati e puliti. Considerato che si trattava di centinaia di oggetti, si può dire che sia stata un’impresa titanica. La villa era piena di cose, dal sottotetto, per i due piani sottostanti e fino alla cantina. E per tale impresa avevamo a disposizione un solo anno. Queste le regole, e solamente dopo la Fondazione sarebbe potuta venire ufficialmente riconosciuta.
Rosamaria Navarini aveva convocato nel direttivo della Fondazione l’amica Karin Pircher e l’architetta Herta Waldner. Ed entrambe si sono messe all’opera per prendere visione di tutto e catalogarlo identificando ogni oggetto con alcune parole chiave. Per svolgere ricerche su ciascun oggetto non c’era abbastanza tempo. E fu così che un mantello finemente ricamato finì in una scatola di cartone e Herta e Karin lo identificarono scrivendo sull’etichetta: ‘abito cerimoniale: velluto con ricami in oro e argento – Etiopia (Menelik).’ Come sia arrivata al nome di Menelik, ce lo racconta Herta stessa:
O-Ton Herta Waldner: Dunque, avevo avuto in mano già diversi oggetti, stoffe o paramenti, in questa casa. Ho realizzato subito che non potesse essere riconducibile alla tradizione cattolica o ecclesiastica. Ho poi visto che è una speciale lavorazione del ricamo dorato alla francese, abbiamo anche un’uniforme belga in uno stile simile. E all’epoca ho chiesto anche per caso riguardo ad altri oggetti al Dr. Richtsfeld di Monaco di Baviera, del Museo dei Cinque Continenti. E lì ho pensato, forse meglio se gli mando qualche fotografia. E poi lui mi ha risposto “non me ne intendo, lo passo a una collega”. Ed è subito arrivata una risposta: sì, anche noi abbiamo qualcosa di simile, un paramento sacerdotale etiope. E questo è stato già un buon inizio. Ho potuto poi fare ricerche su internet e ho trovato anche qualcosa in un museo a Zurigo. Ho poi cercato insieme a paramenti religiosi anche re Menelik ed è venuta fuori una foto di Menelik con un mantello molto simile. Abbiamo anche delle monete etiopi. E quindi ho semplicemente tratto la conclusione, visto che sapevo che il generale Enea Navarini era stazionato originariamente in Etiopia, cioè a Gimma, che potesse essere un regalo o qualcosa che avesse portato via da qualche parte, magari anche in qualche modo non del tutto legale… poteva essere.
AK: Enea Navarini. Il generale Enea Navarini. È proprio di lui che si parlerà qui. Nel 1925 aveva sposato la figlia del collezionista d’arte Franz Fromm; un anno dopo era venuta al mondo la loro figlia Rosamaria, che successivamente sarebbe diventata la fondatrice del museo. Navarini aveva intrapreso presto la carriera militare e aveva combattuto già nella prima campagna di Libia durante la Prima guerra mondiale, come soldato. E nel 1936 è partito per la guerra in Abissinia, che l’Italia aveva avviato nell’ottobre del 1935. Rimase stazionato lì per due anni. Tutto ci induce a pensare che sia stato lui a portare il lussuoso mantello dall’Etiopia a Merano. Ma questa tesi vogliamo corroborarla e quindi la approcceremo in questo podcast da diverse direzioni
L’Italia e l’Etiopia condividono, quindi, un passato difficile. Per questo ho cercato di avere manforte per questo progetto coinvolgendo Hannes. Hannes Obermair, storico bolzanino, esperto – fra le altre cose – anche di ricerche sul fascismo. Perché il tutto si complica ulteriormente per il fatto che il Sudtirolo è appartenuto fino alla Prima guerra mondiale all’Austria-Ungheria e solo successivamente venne annesso all’Italia. Se qui parliamo quindi del “nostro passato” non è sempre chiaro a chi appartenga quel passato di cui si parla. Per questo il rischio è elevato di muoversi attorno a questo tema come un elefante in un negozio di porcellane. Cosa che vorremmo evitare il più possibile. Con il nostro progetto vorremmo che le nostre domande portassero le persone ad avvicinarsi, che non si allargassero le spaccature ma che semplicemente si portasse l’attenzione sulla loro esistenza. Come dice sempre Hannes, in modo così delizioso: “Bisogna far ballare le connessioni.” E vogliamo soprattutto prendere posizione, che è lo scopo principale di questo podcast e della nostra mostra: vogliamo inserirci, noi come team di Villa Freischütz, nel dibattito su oggetti museali e colonialismo, ed elaborare la nostra posizione su questo tema.
Come ci poniamo di fronte a questioni come la restituzione di oggetti museali ai loro Paesi di origine? Secondo la nostra visione, il passato coloniale dell’Europa, e dell’Italia, assume ancora oggi un ruolo importante per noi come museo, o come società? Dove riesiede la nostra responsabilità? Vogliamo rispondere a queste domande non in termini astratti, bensì in termini molto concreti.
E tutto questo lo esploreremo a partire da un unico oggetto: il lussuoso indumento dall’Etiopia. Qui Hannes ed io cercheremo di spiegare le nostre idee e motivazioni a Josef Prackwieser, in modo più dettagliato. Josef è uno storico di Merano e ci accompagna nel nostro progetto per scrivere la propria tesi finale all’Accademia Museale Bavarese (Bayerische Museumsakademie). Inizia Hannes:
O-Ton Hannes Obermair: Quello che per me è molto importante è questo costrutto teatrale dell’eroe maschio e militare. Navarini lo incorpora, non è solamente una figura esemplare di generale illuminato, come vedremo anche nelle fotografie. Questo è il fondo di cui dispone la villa. Lo abbiamo guardato insieme: sono conservate la corrispondenza, le cartine che erano fondamento delle trattative militari e altrettanto militari carteggi. Questo spirito bellico, che continua a vivere nelle collezioni o quantomeno in una parte di esse, è qualcosa di cui desidero profondamente parlare, con l’aiuto del mantello. Anche decostruirlo, quindi scomporlo, scomporlo nelle sue parti unitarie, e quindi poi elaborare di quale spirito esattamente si tratti, di quale pensiero, di quale linguaggio e sguardo. Penso che sia qualcosa che qui, attraverso il mantello, attraverso la figura di Navarini, che è anche il regista principale, e che probabilmente si sarà anche percepito come tale, sia possibile rappresentare molto bene. Per me sarebbe molto importante rendere visibile questa particolare mentalità, questa disposizione, anche autoritaria.
O-Ton Ariane Karbe: È molto importante che tu lo dica, Hannes, non sarei mai stata in grado di pensarlo nei termini in cui tu ora lo hai formulato, ma proprio per questo anche la tua prospettiva è un arricchimento per il progetto. Perché questo è anche a tutti gli effetti un altro importante impulso riguardo all’idea generale di Villa Freischütz, ovvero di presentare tutti gli e tutte le abitanti della casa. E riguardo ad Enea Navarini, lo abbiamo detto all’inizio, non intendiamo nascondere sotto il tappeto il fatto che lui vi abbia vissuto, ma neppure portare il fatto in primo piano, anche perché su di lui c’era pochissimo. Poi abbiamo affidato una prima testi di laurea, anche molto brillante, in cui René ha ricostruito e valutato quali lettere e cartoline siano presenti e quindi realizzato un inventario e una prima stima di come sia da valutare genericamente la figura di Enea Navarini. E questo è un ottimo punto di partenza, sul quale possiamo continuare a costruire. E questo progetto è per noi esattamente questo: un’opportunità di far fare un passo verso il primo piano ad Enea Navarini ed osservarlo in modo critico.
AK: Per me è importante che nel progetto sia coinvolto l’intero team di Villa Freischüz. Per questo ho invitato tutti i membri della squadra a un incontro nella villa per discutere insieme del progetto. Oltre a Herta e a Karin hanno partecipato anche Anntraud Torggler, anche architetta, presente insieme alle altre due fin dall’inizio nel consiglio di amministrazione della Fondazione, e Tim Koella, storico dell’arte e ultimo acquisto del direttivo. E le volontarie e i volontari Carmen Steiner, Rita Lahner, Helmut Schenk, Rosmarie Stocker: cosa pensano loro della restituzione del mantello all’Etiopia?
O-Ton Karin Pircher: Il mantello proviene sicuramente dall’Etiopia. Ma in qualche modo, quello che sarebbe interessante, il punto decisivo sarebbe capire se si è trattato di un regalo da parte di qualche capo locale, o un cacciatore di leoni, per ingraziarsi Enea, o se davvero è macchiato di sangue, se è un bottino di guerra, e questo per me è il punto cruciale per decidere una restituzione.
O-Ton Herta Waldner: Il problema è che la presupposizione molto vicina è che si tratti di una forma di umiliazione di un reparto sconfitto dell’esercito etiope, e che sarebbe quindi sempre e comunque macchiato di sangue anche se gli fosse stato consegnato come regalo. Quindi, adesso, viso che ho perso questa battaglia, ti do una parte del mio Paese, che mi apparterrebbe. Perché adesso ho trovato che spesso questi Ras, e il Ras è praticamente un nobile generale o un signore che comanda una piccola parte del popolo, e quindi forse un simile Ras magari possedeva un oggetto del genere e quando poi ha perso la battaglia lo ha per così dire consegnato come…
O-Ton Anntraud Torggler: Sottomissione
O-Ton Herta Waldner: …Sottomissione, mi manca sempre la parola, hai ragione, gesto di sottomissione è esattamente quella che cercavo, grazie.
O-Ton Anntraud Torggler: … un segnale, per significare che sono capitolati.
O-Ton Rosmarie Stocker: Probabilmente è un segno di dominio, questo mantello. E quindi glielo cede, perché de facto ha perso il suo potere, il suo dominio, possibilmente.
O-Ton Ariane Karbe: Dunque, lo sappiamo bene di che tipo di indumento militare si tratti, e lo sappiamo perché la cosa tipica è la pelliccia di leone, che è sulle spalle, non più molto lussureggiante, si è un po’ diradata. E questo veniva donato a un guerriero meritevole o anche, come ho trovato, a un cacciatore di grandi animali, se avesse riportato dei successi. E questo leone è simbolo di coraggio. Vorrei tornare di nuovo sulla domanda che avete sollevato prima, Karin, tu hai dato una tua risposta: non sappiamo ancora esattamente come Enea Navarini sia entrato in possesso di questo mantello…
O-Ton Karin Pircher: Bisogna davvero dare spazio ad ogni riflessione, davvero fare ricerca in dettaglio. Penso che si dovrebbe davvero vedere di fare ricerca per bene, se è possibile farlo, di dare un ordine adesso, col senno di poi. Perché ovviamente può anche essere che abbia ricevuto tanti regali in Africa, ma se ha ricevuto davvero il mantello in dono o se era un bottino, intendo tra virgolette, o se si è trattato proprio di un bottino insanguinato, su questo adesso bisogna fare ricerca.
MUSICA
AK: Avevano ragione e hanno spinto me e Hannes a renderne conto. Avevamo ovviamente già iniziato delle ricerche, ma quali possibilità esistono ancora di recuperare con certezza l’origine dell’indumento? Ho pregato Hannes di inoltrare una domanda ufficiale all’Archivio nazionale di Roma, se esistono lì ancora documenti relativi ad Enea Navarini. La richiesta è ancora in attesa di risposta, e quando la otterremo ve ne daremo notizia nella prossima puntata.
Nella stessa Villa Freischütz si trovano alcune lettere che Enea Navarini ha scritto a casa, alla moglie Luisa, dalla guerra in Abissinia. Sono state analizzate già in passato da René Thaler Roschatt per la sua tesi di laurea all’Università di Innsbruck. In quel suo lavoro, René ha ricostruito la biografia di Enea Navarini, una base di partenza inestimabile per Hannes e me. Allora, però, non si parlava del mantello e neppure di altri oggetti che Enea aveva portato a casa dall’Etiopia.
Forse oggi, con uno sguardo più affinato, si potrebbero ritrovare dei riferimenti? Mi è venuto in mente che uno dei nostri volontari, Walter Gufler, una volta si era offerto di trascrivere le lettere e fortunatamente si è messo immediatamente a disposizione per rimettere ancora una volta le lettere di Navarini sotto la lente di ingrandimento. Sto aspettando con ansia il risultato:
O-Ton Ariane Karbe: Raccontaci un po’ quali sono stati gli esiti delle tue ricerche.
O-Ton Walter Gufler: Dunque, riferimenti al mantello non ne ho trovati, invece ad altri regali sì e quelli li ho anche presi in considerazione, in queste lettere.
O-Ton Ariane Karbe: Per noi una domanda importante è capire esattamente come questo mantello sia arrivato qui e un’ipotesi è che gli sia stato regalato, il mantello. Ma non sappiamo, appunto, siamo ancora in fase di ricerca.
O-Ton Walter Gufler: … trovato niente.
O-Ton Ariane Karbe: Ma è fantastico, insomma, è pur sempre un risultato, insomma, se non l’avessi fatto adesso, non avremmo saputo ed era sempre rimasta questa incertezza che il mantello magari potesse essere stato citato in un paio di frasi o che esistesse una qualche cerimonia che [Navarini] abbia descritto. E ora possiamo dire con certezza, sulla base delle lettere che abbiamo qui nella collezione… sì, è possibile che in qualche cassa nel sottotetto…, insomma perché qui non abbiamo ancora potuto guardare tutto in dettaglio…
O-Ton Walter Gufler: Scrive qui che manda ai bambini denti e corna di animali e dice, non sa bene cosa se ne possano fare, ma se sono levigati sono in ogni caso più belli. (ride)
O-Ton Ariane Karbe: Ah sì, quelli li abbiamo effettivamente qui nella collezione.
MUSICA: Marion Moroder: Reverse
Soddo 21 febr. 1938
Carissima Luisa,
Ho ricevuto la tua lettera del 6 febbraio colla quale mi dicevi di aver ricevuto i corni di rinoceronte. Non saprei manco io come utilizzarli, credo che lucidati siano migliori. Certo che ora non sono cosi frequenti, i cacciatori ne hanno distrutto troppi – tutti e due appartengono alla stessa bestia. (…) Spero bene che avrete festeggiato convenientemente papà che la salute continui ad assisterlo . Ho mandato un telegramma che porta il mio ricordo e i miei auguri spero che sebbene in ritardo sia giunto. A Paco ho mandato in una busta alcuni francobolli – credo che si appassioni sempre ai francobolli – Il mio lavoro è ultimato quasi e sarebbe completamente finito se lèrrore di qualcuno non mi avesse turbato la quiete in un angolo – Ma cosa Vuoi il paese è così vasto – e le teste sono così diverse. Quì non importante grande intelligenza – ma si vuole tranquillità costanza e uniformità – Dove sono stato io non ho avuto la minima noia – anzi ho trovato aiuto da tutti. Qui leggo il Corriere dell’Impero di Addis Abeba non avevo letto che tanti nostri operai andassero in Germania. Sarà una gita molto breve – e non credo che i nostri operai delle campagne si lascino attirare da altre religioni – sono troppo attaccati ai loro campanili. (…) Al Papà rinnovi tanti auguri da parte mia. A te sempre ogni bene – Stai bene e tranquilla, Salutami tanto tanto Kuki . Ti abbraccio forte e con tanto affetto te e Kuki.
Enea
MUSICA: Marion Moroder: Reverse
AK: Kuki – questa è la figlia di Enea, Rosamaria. Luisa, ovvero sua moglie, e Paco, che è il fratello di lei. E il papà – questo è il padre di Luisa, il collezionista d’arte Franz Fromm.
Enea Navarini – direttore di un commissariato nelle colonie e allo stesso tempo marito devoto e padre amorevole. Questo è forse quello che è emerso con maggiore effetto durante la discussione a Villa Freischütz tra i membri del consiglio direttivo e i volontari: ovvero quanto fosse difficile per tutti conciliare queste due immagini [di Navarini].
O-Ton Carmen Steiner: Vista la scoperta del mantello mi sono un po’ confrontata con il Signor Enea Navarini, ho googlato quello che avevo trovato. Ho visto che ha svolto una carriera militare invidiabile e in contraddizione si vede che doveva essere stato una persona molto piacevole.
O-Ton Ariane Karbe: Ma trovi che sia davvero una contraddizione?
O-Ton Carmen Steiner: Sì, perché tra me e me penso: la guerra in Etiopia è stata una guerra brutale, è stata una guerra odiosa, davvero odiosa, e questo deve in qualche modo riflettersi negativamente sulla tua personalità, bisognerà pure indurirsi davanti a una cosa del genere o avere verso l’umanità un rapporto distanziato, ma non sembra essere stato il caso di questo signore. La Karin dice sempre che era piuttosto benvoluto.
O-Ton Karin Pircher: Io l’ho ancora conosciuto di persona, l’Enea Navarini. Ero solo una scolaretta, quando l’ho conosciuto. Ma era davvero un gentile signore anziano, non aveva per niente l’aspetto di un generale arcigno. Per questo sono anche sicura che non possa aver fatto carriera grazie agli orrori, insomma, non posso proprio immaginarmelo.
O-Ton Ariane Karbe: Lo sentite tutte così? Lo chiedo perché è così… Sì, Anntraud, volevi dire qualcosa?
O-Ton Anntraud Torggler: Allora, io credo che sia possibile, noi essere umani siamo davvero complessi, di avere due compartimenti stagni. Credo che sia possibile semplicemente allontanare determinati atteggiamenti. Adesso mi ripeto, ma intendo che si possa essere in parte così e in parte cosà. Che nel momento in cui sono nel ruolo del generale, del guerriero che ha ricevuto un incarico etc, in quel momento sono diverso da come sono quando sono insieme alla famiglia e agli amici. La capacità di coltivare le amicizie non è qualcosa che interdica il fatto che io possa essere una persona orribile.
O-Ton Rosmarie Stocker: Esistono moltissimi esempi, non solo questo, adesso, ma anche famosi esempi dal periodo del Nazionalsocialismo. Lì c’erano quantità di persone che evidentemente, nella loro sfera delle conoscenze private o degli amici, erano persone amabili, apparentemente, e altrimenti nei loro ruoli, nelle loro funzioni potevano essere davvero molto, molto crudeli. E soprattutto dividono anche loro da una parte queste persone qua, e dall’altra questi stranieri, questi esseri inferiori. Oppure nel mio ruolo, lì non sono io il responsabile, bensì lo Stato o l’istituzione, io faccio solo il mio dovere.
O-Ton Helmut Schenk: Penso che fosse un militare, che fosse la sua professione, ha fatto l’accademia militare. Per fare carriera avrà dovuto anche farsi strada, avere un’immagine positiva. E penso che sia una professione. Quando poi fu sul campo di battaglia… è scoppiata la guerra… o arriva lì e c’è la guarra e lui ha un incarico speciale, gli ordini arrivano da Roma e lui deve ubbidire e lui non è poi quella persona, che nella pratica deve ammazzare altri esseri umani, perché si trova in un altro luogo. Lui è il comandante, comanda l’esercito, fa i suoi piani strategici, riflette su ciò che si può fare per limitare le perdite umane etc e porta a termine il suo incarico. E questa è la sua protezione. Con questi pensieri si protegge, con il fatto di aver semplicemente eseguito il suo incarico, per cui ha anche studiato. E poi quando ha la sua famiglia, vive la sua vita famigliare. Questo penso si concili benissimo.
AK: Sono tornata proprio su questo punto, quando ho intervistato lo storico Markus Wurzer – ve ne racconterò di più nella prossima puntata. Markus ha svolto approfondite ricerche sul colonialismo italiano. Nella sua tesi di dottorato si è occupato di come questo aspetto si sia insinuato nelle memorie delle famiglie sudtirolesi. Ha descritto come luoghi della memoria in Italia, come strade o piazze, dipingano un quadro positivo del colonialismo. “La violenza qui è stata dimenticata,” e poi prosegue:
O-Ton Markus Wurzer: Succede la stessa cosa anche in famiglia, dove questo mito degli “Italiani brava gente” è ancora più condensato e rafforzato, perché ovviamente lì esiste la figura del padre o dello zio o dell’antenato che è stato coinvolto in progetti coloniali e che nei racconti affiora come il buon signore delle colonie. E il bisogno di conservare la lealtà famigliare e il desiderio di integrità morale impediscono di guardare oltre questa facciata e vedere come precedenti generazioni siano state coinvolte nel regime violento del colonialismo.
O-Ton Ariane Karbe: Questo è estremamente interessante, perché Villa Freischütz è proprio una casa-museo in cui si tratta sempre dei suoi e delle sue abitanti . E nel MANTELLO ETIOPE, in questo progetto, si tratta proprio di un ex abitante della casa, Enea Navarini.
Tre settimane fa ho avuto un incontro con i nostri volontari e con i membri del direttivo della fondazione. E lì abbiamo anche… lì ho presentato il progetto e abbiamo discusso insieme. E nella stanza c’era questa forte sensazione, questo bisogno o questa domanda, e ne abbiamo parlato: caspita, questo Enea Navarini pare fosse davvero una persona incredibilmente gentile. Come si combinano le due cose? E questa l’ho estrapolata come la domanda più importante di questa discussione e per il progetto, anche, perché tu adesso dici che esiste una sorta di meccanismo di difesa nella famiglia… e la figura paterna, o lo zio simpatico… Ecco, vorrei approfondire qui: qual è esattamente l’effetto? Cioè, perché ci risulta difficile conciliare questi due aspetti? Lo trovo estremamente interessante. Noi siamo pratici… noi del team ci identifichiamo molto con Villa Freischütz e negli ultimi anni ci siamo confrontate molto intensamente con questa famiglia. Cioè, Herta Waldner, la presidente della fondazione, dice spesso che conosce questa famiglia meglio della propria (ride). E poi una cosa del genere ti entra davvero sottopelle.
O-Ton Markus Wurzer: Questa è una sfida metodologica piuttosto delirante, trovo, o almeno a me è andata così nel mio progetto di ricerca per la tesi. Ecco, quando si è così vicini a una famiglia e si lavora con la famiglia, proprio perché si sta trattando di storia famigliare e delle tracce di questo nelle storie famigliari, allora lo sento come una sfida pazzesca saper separare le cose. Ovvero il mio atteggiamento verso le aspettative e quello della famiglia. E poi questi racconti che vengono presentati, ad esempio, dalla figura paterna non possono essere presi per buoni di per loro, ma bisogna guardare loro dietro e chiedersi quale funzione abbiano questi racconti nella famiglia. Perché vengono presentati a me, che sono l’intervistatore etc. E mi ricordo molto bene che per me è stata davvero una grande sfida, e come storico formato sono stato molto felice dei consigli che mi ha riservato l’antropologia, che ha esperienze più ampie del doversi osservare sul campo e di riflettere sulla propria posizione. E mi ricordo che un grosso, davvero grosso sforzo per me è stato quello di riconoscere e superare queste coalizioni difensive intrafamigliari, come le si voglia definire, queste complicità, se si preferisce. Sì, è assolutamente una sfida metodologica.
AK: Interessante, perché ogni storia è differente. E ogni museo è differente. Villa Freischütz è una casa museo, le case museo sono edifici: residenze, castelli, catapecchie in cui viene raccontata la storia dei e delle abitanti di un tempo. Villa Freischütz è un piccolo cosmo, con un personale facilmente gestibile. Questo comporta che ci sentiamo particolarmente legati a Franz Fromm, il collezionista, a sua nipote Rosamaria Navarini e quindi anche a suo padre Enea Navarini. Va bene così. Dobbiamo solamente esserne consapevoli e cercare di fare un passo indietro in modo da mantenere il nostro sguardo obiettivo. Enea Navarini si sarà anche comportato come un cavaliere a Merano, ma in Etiopia ha commesso delle ingiustizie. Era anche lui parte di una guerra che il 7 ottobre del 1935 davanti all’assemblea della Società delle Nazioni venne dichiarata come un’aggressione ingiustificata. E di questo racconta il mantello.
Nella prossima puntata ci sposteremo nelle due regioni confinanti del Tirolo e del Trentino e cercheremo di seguire più da vicino le tracce sulle origini del mantello. Guarderemo meglio anche alla guerra in cui combatté Enea Navarini e anche quale ruolo vi abbia avuto l’Alto Adige. E mi intratterrò con Hannes su come dovrebbe essere fatta la nostra mostra in un mondo ideale. E vi racconterò anche perché questa cosa ha completamente stravolto il nostro progetto.
CANZONE DI MARION MORODER “Un lungo viaggio”
AK: La canzone è stata scritta e composta da Marion Moroder. Grazie mille a Walter Gufler per la trascrizione delle lettere e a Emilie Messner per la lettura della lettera. Mille grazie anche a Markus Wurzer per l’intervista.
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Podcast: Il mantello etiope: secondo episodio „Verso sud, verso nord!
Villa Freischütz, Fondazione Navarini-Ugarte, Merano
Autrice: Ariane Karbe
CANZONE DI MARION MORODER “Un lungo viaggio” (ritornello)
Ariane Karbe (AK):
Sono per strada a Merano, in sottofondo sentite il Passirio. E sto partendo per andare a Rovereto, al Museo della Guerra. Anche quel museo, come noi, partecipa all’anno museale dell’Euregio, che si celebra in Alto Adige e nelle due regioni confinanti, la Provincia di Trento e il Land del Tirolo. Durante il primo incontro che abbiamo tenuto a Bolzano, il nostro collega di Rovereto, Davide Zendri, ci ha raccontato che beh… un mantello così esiste anche nella loro collezione. Ci ha invitati e ovviamente abbiamo subito accettato. “Noi” siamo Herta Waldner ed io. Herta la conoscete già dall’ultimo episodio. È la presidente della Fondazione Navarini-Ugarte, che gestisce Villa Freischütz. Oggi viaggerò insieme a lei. Al Museo della Guerra abbiamo appuntamento con il direttore Francesco Frizzera, che si è detto disponibile a raccontarci di più sul LORO mantello. Forse scopriremo come esattamente il NOSTRO mantello sia finito a Villa Freischütz. Perché di questo parliamo, in questo podcast. E quindi di cosa ciò significhi e se il mantello debba essere riconsegnato all’Etiopia. Ah, vedo già Herta che come sempre mi aspetta davanti al Meraner Hof… E via verso il Trentino!
MUSICA
State ascoltando IL MANTELLO ETIOPE. Una storia di guerra, colpa e dimenticanza. È anche la storia di come un piccolo museo possa porsi delle domande importanti. Questo podcast è una produzione della Fondazione Navarini-Ugarte e parte dell’anno museale dell’Euregio. Io sono Ariane Karbe, drammaturga delle esposizioni.
Episodio 2: Verso sud, verso nord.
AK: Il manto del Museo della Guerra di Rovereto è meraviglioso. Herta ed io siamo quasi un po’ invidiose. Il suo stato di conservazione è perfetto. Al contrario di quello di Villa Freischütz, la pelliccia di leone sulle spalle è maestosa e integra. Francesco ha portato con sè anche Marco Leonardi Scomazzoni, il curatore, e insieme ci raccontano che il mantello è entrato nella loro collezione attraverso Amedeo Guillet.
Guillet era un ufficiale italiano che nel 1939 si fece inviare in Abissinia, per combattere contro la resistenza etiope. Ufficialmente, Mussolini aveva dichiarato la guerra conclusa già tre anni prima. Allora, il territorio costituito dalle esistenti colonie dell’Eritrea e della Somalia era stato riunito sotto il nome di Grande Colonia dell’Africa Orientale Italiana. Di fatto, però, i e le combattenti per la liberazione dell’Etiopia (tra loro erano presenti anche donne) si erano dimostrati piuttosto tenaci. Il paese non fu mai del tutto pacificato fino alla fine della dominazione coloniale italiana nel 1941. Questo fatto sarà un aspetto molto importante del prossimo episodio, ovvero il fatto che l’Italia abbia posseduto l’Etiopia come propria colonia solamente per pochi anni e che in precedenza l’Etiopia non sia mai stata assoggettata a dominio coloniale, unico paese di tutta l’Africa.
RUMORE DI ZOCCOLI
Guillet, dunque, un abile cavaliere, aveva ottenuto il compito di costituire in Etiopia un’unità di cavalleria, composta da guerrieri etiopi, eritrei e yemeniti, con i quali combatté la resistenza nel Paese.
Francesco racconta che Guillet aveva un rapporto particolarmente positivo con la popolazione etiope, e spiega come è entrato in possesso del mantello:
O-Ton Ariane Karbe: E questo mantello, se ho capito bene, lo ha ricevuto esplicitamente per aver salvato, riscosso, le greggi di questi etiopi, e l’ha ricevuto come ringraziamento?
O-Ton Francesco Frizzera: Sì, esattamente, esattamente così. Il mio tedesco non è molto buono. È molto probabile, perché aveva un rapporto molto particolare con i guerrieri.
O-Ton Ariane Karbe: Se la storia della provenienza del mantello è così lineare, è quindi possibile rintracciare chi fu il portatore e proprietario di questo mantello? Si conosce il villaggio di provenienza? Ed è possibile arrivare a questo grado di precisione?
O-Ton Francesco Frizzera: Il villaggio non è conosciuto. Con molti oggetti di origine coloniale è davvero, davvero difficile ricostruire… cioè conoscere con certezza al cento per cento l’intera storia degli oggetti. Qui si tratta di un caso davvero molto particolare. Qui nel museo, nei nostri depositi, abbiamo diversi oggetti espositivi coloniali di cui conosciamo davvero poco. È una circostanza peculiare, perché conosciamo chi lo ha indossato, abbiamo avuto il tempo di parlarne in profondità con il figlio e di sapere di più su questa persona. Ha scritto alcuni libri. Quindi abbiamo potuto ricostruire la storia, diciamo al 95%. È però un caso unico. In molti altri casi sappiamo davvero, davvero molto poco, possiamo addirittura dire quasi nulla su quegli oggetti.
AK: Dopo la nostra visita a Rovereto, continuo ad informarmi su Amedeo Guillet. Come ha raccontato Francesco, è conosciuto per la correttezza con cui si è rapportato con i suoi alleati. E persino con i suoi nemici! Si oppose, ad esempio, persino ad un ordine del generale Rodolfo Graziani, noto per la sua ferocia. Aveva ordinato di uccidere tutti i nemici subito dopo la cattura. Guillet propose invece loro di passare dalla parte degli italiani. La storia delle greggi sembra quindi effettivamente verosimile. E quindi il mantello del Museo della Guerra è stato davvero un regalo. Fu dato a Guillet per un motivo del tutto privato.
Potrebbe essere stato il caso anche per Enea Navarini, il generale che vi ho presentato nell’ultimo episodio e che era altrettanto stazionato in Etiopia durante la guerra italo-abissina. È stato lui a portare il mantello a Merano, a Villa Freischütz.
All’inizio delle nostre ricerche eravamo ancora incerti se il mantello fosse stato portato proprio da LUI nella collezione della villa. Nel frattempo, sia io che Hannes Obermair, con cui ho realizzato questo progetto, lo riteniamo certo.
MUSIK
PER PRIMA COSA non esiste alcun indizio che il mantello sia stato portato al museo da un’ALTRA persona. Né Franz Fromm, il collezionista, suocero di Enea Navarini, che ha raccolto la maggior parte degli oggetti della collezione, né i suoi figli e neppure i suoi dipendenti ebbero ALCUNA connessione con l’Africa.
IN SECONDO LUOGO, non esiste solamente il mantello nella collezione ma anche altri oggetti provenienti dall’Abissinia, che sono stati portati da Enea Navarini: coppe di corno e gioielli, due scudi, lance e sciabole e manoscritti religiosi. Dei corni di rinoceronte avete già sentito raccontare nello scorso episodio.
INFINE, abbiamo due fotografie che mostrano Navarini mentre riceve dei doni. In una delle fotografie riceve una sciabola da due civili etiopi (una sciabola come quelle esistenti nella villa). Nell’altra foto si vede Navarini mentre viene benedetto con una croce da un sacerdote locale, mentre un secondo religioso tiene in mano un oggetto di stoffa (purtroppo non il nostro mantello!) in attesa di consegnarlo a Navarini.
Ma torniamo a come ESATTAMENTE Navarini sia potuto entrare in possesso del mantello: supponiamo che lo abbia ricevuto in dono, come Amedeo Guillet, in gesto di gratitudine o come riconoscimento della sua persona da parte di qualche alleato etiope. Direi quindi che ritornarlo potrebbe quasi essere considerato un’offesa. Perché il mantello gli sarebbe stato davvero donato con un atto di volontà. Interpretarlo come costrizione, perché accaduto in un contesto coloniale, equivarrebbe a fare un torto al donatore, considerandolo una vittima, sottragli il suo potere di libera azione – o cosa ne pensate?
All’inizio della nostra ricerca, mi sono confrontata con Hannes sulle possibili modalità in cui Navarini sarebbe potuto entrare in possesso del mantello; un cauto approcciarsi al tema. Hannes, allora, parlò di “bottino di guerra” e io ho insistito:
O-Ton Ariane Karbe: Hannes, visto che nomini il “bottino di guerra” potresti spiegarmi esattamente in quali casi si tratterebbe esattamente di “bottino”?
O-Ton Hannes Obermair: Ho utilizzato questo concetto perché io mi approccio al tema da un’altra direzione, ovvero da un contesto storico-politico sul tema della guerra di Etiopia, di Abissinia, comunque la si conosca. Questo era lo sfondo che mi ha subito attratto di questo tema, perché questa prova generale della seconda guerra mondiale, come anche è stata chiamata, con impiego di gas, quindi con forme genocidiali di combattimento, di fatto precede la conduzione della seconda guerra mondiale, soprattutto per quel che riguarda la campagna di Russia. Quella che i fascisti hanno condotto in Africa orientale, è stata una guerra genocidiale, contraria ai diritti dei popoli. E allo stesso tempo si è trattato anche di un’enorme appropriazione di quel paese e di tutto ciò che il paese possedeva, in termini di materie prime, con tutto ciò che comporta come potenziale e come prestigio. E in questo contesto, ciò che è giunto in Italia come beni culturali, provenienti da Etiopia, Abissinia ed Eritrea, e la stele di Axum ne è forse l’esempio più lampante, è considerato di fatto bottino visto che anche nel caso di forme legalizzate di sottrazione nel contesto del tempo si tratta fondamentalmente di un rapporto di potere che ha reso possibile questo spoglio in prima istanza. In questo caso, posso assolutamente immaginarmi che il mantello sia stato donato a Navarini da qualche capo delle tribù locali. Si è trattato quindi, possibilmente, di un dono simbolico, che è sempre anche un passaggio di simboli di potere. Ma questa pratica si spiega solamente come processo di appropriazione, che al tempo stesso evidenzia un passaggio di potere.
O-Ton Ariane Karbe: Quindi davvero vorresti… Diciamo che, per dire, Enea Navarini abbia acquistato il mantello al mercato. Lo considereresti comunque un bottino di guerra, perché è stato acquisito in un più ampio contesto coloniale?
O-Ton Hannes Obermair: Diciamo che in questo caso sarebbe una forma armoniosa di bottino di guerra, se la si vuole vedere così. Non riesco, però, a immaginare un processo simile, perché un mantello così simbolicamente carico, che aveva un significato straordinario nel contesto della società etiope-abissina, può essere stato ottenuto solamente grazie alla morte del suo proprietario, quindi ucciso da Navarini o dalla sua gente, oppure nel corso di trattative di combattimento, o operazioni di polizia, oppure, appunto, come cessione, come una sorta di spada di Vercingetorige, quando l’ha deposta ai piedi di Cesare, quindi come vinto di fronte al proprio nemico. Non riesco ad immaginare che l’abbia semplicemente acquistato, invece probabilmente aveva una sua importanza anche per lui, come per tutta la dominazione italiana in Africa orientale, per poter legittimare la propria posizione da parte del popolo sottomesso. L’intero programma, anche il programma di ricostruzione in Africa orientale, come ad Addis Abeba o Asmara, ha come finalità quella di cementare questa gerarchia fra colonialisti e conquistati. E anche il passaggio di mano del mantello deve essere avvenuto in un simile… o meglio ha più senso se lo si vede e lo si spiega in questo contesto. Quindi, deve essere stato ceduto. Come gesto di sottomissione. Oppure sottratto ad un nemico deceduto. Come scalpo, per dire, come scalpo culturale.
AK: Che Navarini abbia ricevuto il mantello da alleati etiopi come simbolo di sottomissione o collaborazione, ci sembra ancora oggi, dopo numerose intense ricerche, l’ipotesi più accreditata. Lo conferma il fatto che proprio questo tipo di indumenti veniva spesso regalato per rafforzare delle alleanze.
Ne ha parlato anche Angela Roberts, un’inglese che vive per metà a Merano e per metà in Etiopia. L’ho incontrata in un caffè per raccontarle del nostro progetto e per chiederle aiuto nelle nostre ricerche. Angela sarà una presenza importante nel prossimo episodio.
O-Ton Ariane Karbe: Lei ha detto, appunto, che si tratta di un’uniforme da guerriero, giusto?
O-Ton Angela Roberts: No, si potrebbe piuttosto dire che si tratta di un riconoscimento, a recognition of a great man, un uomo o un soldato, forse un comandante, ma anche alcuni medici, ma parlo adesso di 150 anni fa. Emperor Menelik ha detto più di una volta: “And a cape for you and a cape for this man and a cape for that man.” Gli inventori inglesi, ad esempio, hanno ricevuto questi mantelli. Qualcuno dalla Germania che ha costruito una strada o un ponte ad Addis, anche i francesi che hanno di fatto costruito la ferrovia tra Addis e Gibuti hanno ricevuto qualcosa di simile. Ma di solito agli stranieri non succedeva spesso.
AK: Emperor Menelik – l’imperatore Menelik! Vi ricordate di lui dall’ultimo episodio? Con QUELLA domanda siamo entrati nel progetto, se il mantello fosse potuto appartenere a lui. Non eravamo quindi così del tutto fuori dal seminato! Però è morto già nel 1913, quindi molto prima che Enea Navarini mettesse piede in Etiopia.
Al Weltmuseum, museo del mondo, di Vienna esiste un mantello cerimoniale che Menelik ha donato nel 1905 all’imperatore Francesco Giuseppe. L’imperatore abissino aveva sapientemente ordito rapporti diplomatici con i potenti d’Europa. Voleva posizionarsi alla pari con loro, anche per tentare di sottrarsi a una possibile colonizzazione. E per questo dispensò anche diversi regali. Nelle collezioni reali di Londra si trova un mantello che egli donò nel 1911 al re Giorgio V in occasione della sua incoronazione. Secondo la mia sensibilità, in questi casi si tratterebbe di oggetti che oggi si trovano legittimamente nei musei europei e che quindi NON dovrebbero né potrebbero essere restituiti.
Ed ora viene il bello: nel Museo delle Civiltà di Roma si trovano 20 mantelli simili. 20! È particolarmente interessante per le nostre ricerche, perché il museo ha una storia particolare: è stato creato nel 2016 dalla fusione di quattro diversi musei nazionali. Un anno dopo è stato integrato anche il Museo Coloniale. Il museo coloniale!! Mussolini lo aveva inaugurato nel 1923 per scopi di propaganda. È stato trasferito più volte, è stato a lungo chiuso al pubblico ed attualmente è in fase di rinnovamento. Hannes ed io abbiamo intervistato le curatrici Gaia Delpino e Rossana di Lella e questo è quello che ci hanno raccontato dei loro mantelli o “mantelle,” come le chiamano:
O-Ton Ariane Karbe: E la vostra collezione comprende comprende un mantello simile? Ne avete anche voi?
O-Ton Rossana di Lella: Si, allora, noi all’interno di queste collezioni abbiamo, credo proprio, quindici oggetti.
O-Ton Ariane Karbe: Quindici?!
O-Ton Rossana di Lella: In italiano le tradurremmo come delle “mantelle”. Sono delle mantelline, nella descrizione troviamo solitamente quindici mantelline regali in pelle di leone.
O-Ton Ariane Karbe: Sarebbe possibile avere delle fotografie di queste mantelle?
O-Ton Rossana di Lella: Certo, sì!
O-Ton Ariane Karbe: Sarebbe Perfetto, perché quella di Villa Freischütz ha un ricamo molto ricco e sembra di essere particolarmente raro e non riesco a capire se si trattasse di una mantella speciale. Sappiamo che erano donate a guerrieri che dimostrassero particolare coraggio, ed era quindi un simbolo da indossare per uomini nobili, ma vorrei davvero scoprire se esiste un indizio su quale tipo di guerriero o sulla regione di provenienza o se si trattasse di un oggetto speciale. E c’era un combattente della resistenza, diciamo, molto, molto importante, sul fronte etiope e il generale Enea Navarini era coinvolto nella cattura di questo soldato. Quindi sussiste ancora l’ipotesi che questa mantella, forse forse forse sia appartenuta a questo importante personaggio della storia etiope. Probabilmente non lo sapremo mai, è impossibile da ricostruire, ma ci sto provando e sarebbe davvero utile vedere quale tipologia… Sarebbe perfetto, grazie mille!
O-Ton Gaia Delpino: I would like to add that al museo preistorico etnografico, il museo etnografico all’interno del museo delle civiltà, abbiamo invece cinque mantelle (mantelline) provenienti dall’Etiopia. Abbiamo qualche dato. Sappiamo quando sono entrate a far parte delle collezioni del museo e sappiamo che sono oggetti di grande valore perché erano doni importanti che sono stati fatti a Re Vittorio Emanuele III di Savoia e prima ancora a suo padre Re Umberto I. E possiamo mandare anche foto di queste cinque, if you like.
O-Ton Ariane Karbe: Yes! Wow, that’s perfect!
O-Ton Gaia: And the data that we have.
O-Ton Ariane Karbe: That’s great, okay. You know, meanwhile we know of some of these capes within European museums and it’s so interesting because every cape has its own history and story.
O-Ton Gaia: Yes, every object.
AK: Fünf der Gewänder waren also dem Italienischen König Viktor Emanuel III. und seinem Vater geschenkt worden. Viktor Emanuel war 46 Jahre lang König von Italien! 1936 bis 1941 war er damit auch – Kaiser von Abessinien! Woher die 15 anderen Mäntel stammen, ist völlig unbekannt und Rossana erzählt warum:
O-Ton Rosanna di Lella: Qui invece, nel caso delle collezioni coloniali trattiamo invece di oggetti che sono stati presi, sotratti, raccolti nelle ex-colonie italiane e quindi quando parliamo di queste collezioni con Gaia, cogli altri colleghi diciamo sempre: sono tutti oggetti potenzialmente sensibili, perché sono stati tutti raccolti in un contesto in cui le questioni di potere tra le diverse parti non erano omogenee, non erano equilibrate, ovviamente. E all’interno di questa collezione, diciamo in qualche modo tutta sensibile storicamente, abbiamo anche degli oggetti sensibili per la loro storia, per come sono stati costruiti, per chi gli ha presi, insomma. Poi parleremo anche della provenienza di questi oggetti. Purtroppo accenno solamente il fatto che su queste collezioni non c’è stata la raccolta di dati specifici sulla provenienza, sul collezionista, sull’anno d’ingresso, perché il museo coloniale non aveva un libro d’ingresso degli oggetti. Non aveva nessuna forma di archiviazione, perché era un museo che dipendeva dal ministero delle colonie, come appunto abbiamo accennato è un museo di propaganda, non un museo di raccolte scientifiche, non un museo con una finalità di conoscienza come gli altri musei scientifici, etnografici dell’epoca. Quindi, non sappiamo quasi nulla delle provenienze.
AK: Ha quindi a che fare con la peculiare storia del museo coloniale: tutti gli oggetti sono stati raccolti nelle colonie italiane di Libia, Somalia, Eritrea e Abissinia, non per imparare qualcosa sulle relative culture, ma per pure scopi di propaganda. Non è mai esistito un registro d’inventario, come accade abitualmente nei musei, dove vengono annotati tutte le acquisizioni di oggetti. Rossana dice che, di fatto, visto questo scopo iniziale di raccolta degli oggetti, TUTTI i pezzi da collezione che si trovano attualmente nell’ex museo coloniale sono gravati di significato.
Nell’intervista, ho citato, tra l’altro, l’unica altra e ultima possibile ipotesi che sia ad Hannes che a me pare plausibile, su come Enea Navarini sia potuto entrare in possesso del suo mantello etiope. Non possiamo escludere che lo abbia effettivamente depredato a un nemico. All’inizio della sua dislocazione in Abissinia, Navarini fu direttamente coinvolto in attività di polizia in persecuzione dei partigiani e delle partigiane etiopi, come fu anche Amedeo Guillet.
Il già citato generale Rodolfo Graziani aveva fondato un’unità speciale proprio dedita a questo scopo, comandata dal generale di brigata Carlo Geloso. L’unità perseguì in particolare il guerrigliero della resistenza Ras Desta Demtu e le sue truppe, impiegando allo scopo anche gas letali.
MUSIK: Marion Moroder: Reverse
Emilie Vorhauser legge due lettere di Enea Navarini
11 novembre 1936
Mia amata Luisa,
Sono in marcia verso nord. Ras Desta, che ci precedeva, ora si sta ritirando, altrimenti sarebbe caduto in una trappola, poiché la Colonna Geloso sta marciando verso lo stesso obiettivo. I nativi si sottomettono e desiderano combattere al nostro fianco. Di’ a Paolo che ho due servitori neri, che sono molto diligenti. Di notte uno monta sempre di guardia nella mia tenda. Incontreremo grandi difficoltà lungo le strade, ma continuiamo ad avanzare. Gli aerei ci accompagnano e spronano. Ho un ottimo cuoco nero. (…) Pensa che oggi abbiamo mangiato pomodori freschi, fagiolini, peperoni, mandatici da Neghelli. Ad oggi non ci manca nulla, abbiamo acqua minerale, Chianti, e solo per quanto riguarda la frutta dobbiamo contentarci di quella in scatola. I soldati neri che sono con noi sono davvero magnifici – i bianchi fanno tutto ciò che possono. (…) Puoi davvero stare tranquilla, perché tutto va bene ed andrà sempre meglio. (…) Penso sempre a voi e il mio unico desiderio e che siate in salute come lo sono io. E devi andare al cinema con Erna, non puoi startene seduta in casa. (…) Saluta il papà! Ti mando questa lettera perché ho l’occasione di mandarla attraverso Neghelli. (…)
Cari saluti a tutti in casa. Un caro bacio a te, Kuki e Bubi.
Il tuo Enea, che ti ama.
17 novembre 1936
Mia amata Luisa,
sono in marcia verso Allata, alla testa della mia colonna. Il governatore mi intima di proseguire rapidamente, ma non posso; man mano che si avanza, bisogna anche costruire le strade, i ponti etc. (…) Il clima è perfetto, sempre sereno. Gli abissini si ritirano, la popolazione si sottomette, altri richiedono la nostra protezione, ma sono talmente lontani da noi che concederla non è possibile. Io sto bene, dormo sempre sotto la zanzariera, ho due (…) Carabinieri di guardia. Il lavoro è tanto, sono straordinariamente occupato tutto il giorno. (…) Come va a scuola, coi nostri bambini? Studiano? E state bene? Devi sempre stare tranquilla e pensare che vada tutto bene. Io vi ho sempre nel cuore. Vorrei che i bambini ti portassero gioia. Saluta il papà e tutti lì da voi, di cuore. Pensa che io sto benissimo. Mi trovo a quasi 2000 m di altitudine ma sto bene. Abbraccio te e i bambini e vi bacio.
Il vostro Enea
MUSIK: Marion Moroder: Reverse
AK: Ras Desta Demtu fu infine catturato il 24 febbraio 1837 e impiccato dopo un processo sommario. Il suo cadavere venne esposto per un intero giorno come monito.
Nella collezione di Villa Freischütz esiste una fotografia di una casa in cui ha vissuto Ras Desta Demtu. Quindi è facile pensare che Navarini si sia forse impossessato lì di alcuni beni appartenuti a Ras Desta Demtu.
In un forum militare italiano su Internet, un partecipante ha postato nel marzo del 2020 la foro di una sciabola abissina. Il membro del gruppo sosteneva che sia la sciabola che altri oggetti fossero appartenuti a Ras Desta Demtu e che li avrebbe ricevuti in regalo dal figlio del generale Archimede Mischi.
Un altro partecipante del forum, rispose con il seguente commento:
“Cosa devo dire, davanti a simili pezzi da museo ci si può solo inchinare! Complimenti vivissimi!“
Quale delle nostre tre ipotesi corrisponda alla realtà, probabilmente non lo sapremo mai. Ma siamo riusciti a fare un bel passo avanti nel definire una nostra posizione rispetto ad un’eventuale restituzione. In questo senso, lo scambio con le nostre colleghe e i nostri colleghi ci è stato di grande aiuto. Abbiamo, infatti, chiesto a tutt* quale fosse la loro opinione riguardo alla restituzione all’Etiopia in generale e nello specifico rispetto al nostro mantello. Di questo vi parleremo più approfonditamente nel prossimo episodio. Perché ci porterà al punto – come vi ho già anticipato nello scorso episodio – che ha completamente stravolto il nostro progetto. Perché non siamo stati „in viaggio“ solamente verso Rovereto e Roma, quindi verso sud, ma anche verso nord, in Tirolo. Il Museum der Völker (Museo dei Popoli) di Schwaz partecipa come noi all’anno museale dell’Euregio. Ho intervistato la direttrice del Museo, Lisa Noggler-Gürtler, sulla loro collezione etiope (che è stata realizzata negli anni Sessanta, quindi di nuovo una storia diversa) e poi:
O-Ton Ariane Karbe: E poi volevo farti delle domande sulla restituzione. La metto giù così: non sappiamo ancora in quali circostanze Enea Navarini abbia ottenuto il mantello, ma ad ogni modo è stato un signore della guerra in quei luoghi ed ha combattuto. Quindi dico sempre: comunque la si voglia vedere, comunque la si rigiri, questo mantello è macchiato di sangue, e proprio per questo trovo entusiasmante la discussione riguardo alla restituzione. Già vedo come questo mantello sia un fantastico… ci serva come spunto di discussione. E per assurdo, più ci confrontiamo con il suo portato, più si intreccia alla collezione di Villa Freischütz. In un certo senso, diventa sempre più legittimo che si trovi in questa collezione, se può servire ad un simile scopo. Ovviamente, non significa che io non sia aperta, dipende comunque soprattutto dal consiglio direttivo della Fondazione, ma anche loro sono molto aperti nei confronti di una restituzione. E anche di farsi coinvolgere nella discussione. È comunque un processo che trovo molto interessante, perché all’inizio del progetto avevo pensato, per me, soprattutto, per la mia posizione: sì, penso che dovrebbe essere restituito, se lo desiderano. Questa è sempre la questione: troverebbe là un suo posto in una collezione museale? Ci sono già numerosi altri oggetti? Arrivo anche alla domanda, che vorrei porti in modo diretto. Ma mi interesserebbe davvero sapere la tua opinione su questo.
O-Ton Lisa Noggler-Gürtler: Sì, lo trovo sempre molto interessante, perché il museo è ovviamente un concetto europeo. Al di là di questo, è poi necessario chiarire le circostanze attorno a uno specifico oggetto e fare ricerche, se funziona così o meno. Ma posso capire bene che poi cresca con la collezione, perché su questi oggetti si più raccontare davvero molto di quanto è stato taciuto troppo a lungo. Il problema che vedo sempre io, quando ad esempio realizzo mostre per bambini, è la domanda che mi pongo ogni volta: devo anche spiegare loro che c’è stata anche un’ingiustizia, in modo che capiscano che bisogna riparare i torti fatti, o devo solamente ripararli? Capisci cosa intendo?
O-Ton Ariane Karbe: No.
O-Ton Lisa Noggler-Gürtler: Provo a spiegartelo in un altro modo. Ho potuto curare una mostra per bambini all’Humboldt Forum, che verrà inaugurata a breve. L’Humboldt Forum è stato aperto un mese fa con cinque mostre. Mancano ancora un sacco di cose, ma per ora ci sono cinque mostre e una di queste è “Nimm Platz!”, “Prendi posto!” una mostra per bambini dai 3 ai 10 anni. Ci siamo posti molto intensamente la questione, se mostriamo oggetti del museo etnologico, cosa raccontiamo di essi? Raccontiamo di loro che forse non sono arrivati qui in modo molto corretto, in modo che si possa riflettere su come questa scorrettezza abbia funzionato, perché sono arrivati qui in primo luogo? Oppure provo ad aprire questa meta-dimensione, per cui ha un senso che la mostra si chiami “Prendi posto!” ovvero “Prendetevi il vostro spazio!,” dicendo che in questa mostra tutti sono i benvenuti e che le dinamiche si svolgono guardandosi negli occhi alla pari, che non ci sono particolari differenze fra i gruppi da includere, tra diverse culture di provenienza etc. Quindi si crea un forum, in cui certe domande non si pongono proprio, perché sono diventate poco interessanti, come ad esempio la brutta locuzione “colore della pelle” etc. Quindi la mia domanda è sempre: questi oggetti servono a raccontare una storia in modo che non debba più ripetersi, o cerco di creare in un museo un’atmosfera per cui diventa ovvio che condividiamo tutti lo stesso spirito? Pare che servano entrambi gli aspetti, ma per me è sempre una domanda molto interessante.
AK: Questo era esattamente il punto a cui eravamo arrivati anche Hannes ed io nella progettazione della nostra mostra. In un incontro a Villa Freischütz ci eravamo scambiati delle opinioni su quali obiettivi volessimo raggiungere con questa mostra. Ci era venuta l’idea che i visitatori e le visitatrici potessero osservare il mantello accompagnati da musica, avevamo delineato le prime idee sulla struttura e poi improvvisamente mi è venuto da chiedere a Hannes “Senti, ma come dovrebbe essere questa mostra in un mondo ideale?” Ci siamo guardati e la risposta era nelle nostre mani: in un mondo ideale, dove possiamo incontrare altre culture assolutamente alla pari, sarebbe mandatorio avere dei o delle partner di dialogo etiopi. O meglio, dovrebbe essere un’ovvietà.
E quindi abbiamo deciso di fare un esperimento: di realizzare la mostra esattamente COSÌ come ce la immaginiamo: un bianco sudtirolese e una bianca di Berlino. E poi aprire il tutto esplicitamente alla discussione da parte etiope. E vediamo cosa succede. Ed in caso cambiare radicalmente la mostra se serve. Oppure produrre una serie di questo podcast in inglese… o qualunque altra cosa… vedremo.
Perché questa decisione ci abbia portato a dubitare se imbarcarci in questo progetto fin dall’inizio, ve lo racconto nel prossimo episodio.
CANZONE DI MARION MORODER “Eine weite Reise” (“Un lungo viaggio”)
AK: La canzone è stata scritta e composta da Marion Moroder. Grazie di cuore a Walter Gufler per la trascrizione delle lettere e a Emilie Vorhauser per la lettura. Sentiti ringraziamenti per le interviste a Francesco Frizzera, Marco Leonardi Scomazzoni, Lisa Noggler-Gürtler, Gaia Delpino, Rossana Di Lella e Angela Roberts.
3
Il mantello etiope: episodio 3: Ancora in cammino
Ariane Karbe (AK):
MUSICA
Sono di nuovo a Villa Freischütz, come nel primo episodio. Ma questa volta non mi trovo in soffitta, bensì nel salone rosso, di fronte al mantello etiope. Non lo abbiamo ancora riportato in deposito, anche se la mostra si è conclusa ufficialmente all’inizio della pausa invernale. Ma durante la pausa si sono tenute visite guidate e manifestazioni. Quindi abbiamo potuto ancora far vedere la mostra. In qualche modo va bene così, che non abbia ancora trovato una conclusione. Perché la storia del mantello etiope è tutt’altro che conclusa, troppe domande restano ancora aperte. Come ha cantato Marion Moroder nella sua canzone sul mantello:
Portato fino a qui
Solo dal potere e dall’avidità
Forse anche no
Nessuno me lo dice
No, nessuno me lo dice
Quando Hannes Obermair ed io abbiamo iniziato le nostre ricerche, era estremamente improbabile riuscire a scoprire a chi fosse appartenuto il mantello un tempo. Quindi PRIMA che il generale Enea Navarini ne entrasse in possesso e lo portasse a Villa Freischütz. La via è la meta, ci siamo detti. Ma adesso non riesco a togliermi di dosso il fatto di non aver saputo dare risposta a questa domanda. In ogni caso, non con certezza. E nel frattempo si è delineata una nuova risposta, anzi due. Abbiamo messo sotto la lente di ingrandimento ancora una volta gli altri oggetti che sono stati portati dall’Abissinia a Villa Freischütz – e così facendo abbiamo trovato qualcosa di sensazionale. Ma ve lo raccontiamo meglio più avanti.
State ascoltando IL MANTELLO ETIOPE. Una storia di guerra, colpa e dimenticanza. È anche la storia di come un piccolo museo possa porsi delle domande importanti. Questo podcast è una produzione della Fondazione Navarini-Ugarte e parte dell’anno museale dell’Euregio. Io sono Ariane Karbe, drammaturga delle esposizioni.
Episodio 3: Ancora in cammino
AK: Nello scorso episodio vi ho raccontato che Hannes ed io abbiamo deciso di sottoporre la nostra mostra, dopo l’inaugurazione, a una discussione aperta, soprattutto verso la parte etiope. Vi racconterò subito quali risultati abbiamo ottenuto. E anche perché questo ci abbia creato dei dubbi, come vi avevo già annunciato nello scorso episodio, se avremmo mai davvero dovuto iniziare il progetto. Ma forse vi state chiedendo perché non abbiamo cercato, già PRIMA di iniziare, dei contatti con dei colleghi o delle colleghe etiopi. Lo abbiamo fatto! Anche se relativamente tardi e un po’ timidamente. Per questo ho avuto a lungo un peso sulla coscienza, perché mi era assolutamente chiaro quanto fosse importante uno scambio.
Qui spiego allo storico Josef Prackwieser i motivi dei miei tentennamenti:
O-Ton Ariane Karbe: Una cosa che ho visto subito che mi stava creando delle difficoltà e che volevo anche subito mettere in chiaro, anche perché per me era molto importante: esistono le scienze museali proprio perché i musei siano spinti a rendere pubblica la loro soggettività. E non fare come se venisse annunciata un’unica verità. E trovo sempre che si debba anche sempre viverla in prima persona. Quindi non ce la si può aspettare dai musei, e in questo sta anche l’ironia, perché i musei sono fatti di singole persone e se si vuole portare all’esterno qualcosa, bisogna anche viverlo all’interno. E quindi per me ciò comprende anche mettere sul tavolo le paure o gli ostacoli. Un’incertezza che mi assale (e ne avevamo anche parlato all’inizio, Josef) è che volevamo ovviamente entrare in contatto anche con dei colleghi e delle colleghe etiopi. Eppure, su questo ho tirato un po’ il freno. Ecco, esistono già dei contatti e potremmo anche attivarli. Ma in qualche modo ho paura di perdere il controllo della cosa. In qualche modo penso che, prima che Hannes ed io non abbiamo elaborato una nostra posizione o non abbiamo prima creato una base seria per poter entrare in una discussione… Insomma, non ho esattamente paura che qualcuno possa dire immediatamente: “Sì, dovete rimandarcelo subito indietro, entro dopodomani!” Non è tanto questo, ciò di cui ho paura, ma più che altro temo la complessità della discussione e della sensibilità. Penso di avertelo già detto, Josef, ma ad esempio temo il fatto che i colleghi e le colleghe etiopi possano dire: “Allora, questa storia del mantello è abbastanza patetica: innanzitutto è rovinato, la pelliccia di leone è solo rada sulle spalle. E inoltre ne abbiamo a dozzine.” E di poterci rendere ridicoli, in un certo senso. Ma anche di scontrarmi con una posizione tipo: “Va be’, tenetevelo! So what? È anche la storia del vostro Paese. E nel nostro museo qui abbiamo l’uniforme di un generale italiano.” Insomma paura di tutti questi legacci. In questo senso sono anche… Non vorrei pestare i piedi a nessuno. Ma penso che si tratti anche esattamente di questo – per questo anche la nostra concentrazione su un unico oggetto – esattamente in questi imbarazzi bisogna entrare a gamba tesa e poi proseguire. Anche questo, secondo me, fa parte della nostra ricerca di trovare una nostra posizione a Villa Freischütz e quindi trovare anche uno strumento, anche di comunicazione. Okay, e per imparare qualcosa di nuovo. Ed eventualmente metterlo anche a disposizione di altri musei. In modo che magari gli altri non debbano impastarsi negli stessi dubbi.
AK: Quindi per prima cosa abbiamo elaborato una nostra posizione, abbiamo affrontato i temi della restituzione e della decolonizzazione e ci siamo fattivamente confrontati con la storia coloniale italiana e abissina. Ci siamo preparati per possibili incontri, ma senza rinunciare alla consapevolezza che ci siamo mossi su un terreno incerto e che siamo sempre stati pronti ad ammettere i nostri errori. A posteriori sono contenta della nostra scrupolosa preparazione. Perché quando poi i tempi sono maturati e abbiamo preso il primo contatto con Angela Roberts, che avete conosciuto nell’ultimo episodio (vive tra l’Etiopia e l’Alto Adige), ci ha raccontato quanto segue:
O-Ton Angela Roberts: Adesso è diventato tutto molto più aperto, ma ai tempi del Derg questi vestimenti e queste armi in realtà venivano nascosti. Perché le famiglie non volevano che la gente sapesse che il fratello o il padre avevano combattuto. Il Derg è stato un regime brutale e le persone non hanno mai parlato con altre. Anche adesso, alcune fra le persone più anziane, hanno molta paura di rispondere alle domande. E non ne pongono di loro. Considerano sempre se possano dire qualcosa o no.
AK: Il periodo del Derg è finito tempo fa, ovvero la dittatura militare che ha governato l’Etiopia dal 1974 al 1991. Ma quando Angela ci ha raccontato delle paure che in parte sono rimaste, una cosa mi è stata chiara: in alcuni casi un dialogo su alcuni oggetti avrebbe potuto non solo mettere in imbarazzo i membri della cultura di origine, ma metterli anche in pericolo. Sarebbe stata una catastrofe.
PAUSA
AK: Un mese dopo che abbiamo iniziato il nostro progetto, è esploso il conflitto nella regione del Tigray, nel nord dell’Etiopia. Quindi nel novembre 2021 il fronte della guerra civile si è avvicinato alla capitale Addis Abeba. Lo stato delle notizie è piuttosto caotico e non avevamo modo di valutare il conflitto da vicino. A questo va ad aggiungersi il fatto che il mantello etiope sia un indumento guerresco ovvero l’indumento di un alto dignitario, ed è quindi un oggetto dotato di una certa carica politica. Qualcosa che all’inizio del nostro progetto ancora non sapevamo. Non intendo dire che in questo caso uno scambio sia impossibile, ma che non è del tutto neutro e non va preso con leggerezza.
La guerra civile in Etiopia è probabilmente il motivo per cui le reazioni al nostro progetto non sono ancora pervenute; al momento esistono – e comprensibilmente! – ben altre priorità nel Paese. E comunque abbiamo ottenuto, ad esempio, dal museo etnologico di Addis Abeba e dalla Anglo-Ethiopian Society informazioni preziose su oggetti simili da comparare (il museo possiede una cinquantina di mantelli simili), ma nessuna risposta alla nostra domanda, se il nostro mantello dovesse essere restituito.
Anche l’Istituto Italiano di Cultura, l’ambasciata italiana, l’Africa Unbound Museum, tutti ad Addis Abeba, non hanno reagito al nostro invito a partecipare alla discussione. Abbiamo contattato il museo di “Fairfield House” in Inghilterra, dove l’imperatore Haile Selassie visse in esilio, e il direttore, William Heath, nonché la dirigente, principessa Esther Sellassie Antohin, una pronipote di Haile Selassie, hanno preso atto del nostro progetto con interesse. Hanno inoltrato volentieri le nostre domande, ma anche loro non hanno risposto alla domanda sulla restituzione.
E le studiose e gli studiosi che ricercano vari aspetti della cultura etiope, che abbiamo contattato via Twitter, ci hanno fornito informazioni sugli oggetti con cortesia e generosità, ma anche loro non hanno reagito riguardo alla questione della restituzione o sull’approccio generale del nostro progetto.
Questa mancanza di reazioni ci ha un po’ disorientati. Quando pochi giorni fa ho provato a trarre delle conclusioni con Hannes, lui ha detto:
O-Ton Hannes Obermair: La più grande scoperta è stata questa forma di modestia di cui adesso ho preso coscienza. Non è più un rapporto tradizionale con l’oggetto, che cerchi di comprendere, elaborare, contestualizzare per rendergli giustizia. Vedo davanti a me una complessità, un tema che è più grande di me, che a volte mi opprime anche, in un certo senso. E non mi sento in colpa, cioè non è una questione di coscienza sporca. Perché la coscienza sporca è anche sempre una coscienza falsa. È più la consapevolezza che con l’elaborazione analitico-discorsiva puoi arrivare solo fino ad un certo punto. E poi manca qualcosa. Quindi questa mancanza la sento con molta forza, che è, per dire, la parte etiope, ovvero l’altra parte della narrazione che mi manca. Questo mutismo, che il mantello porta con sé e che investe anche gli oggetti che lo attorniano, per me è come una nebbia che mi provoca delle vertigini.
AK: Questo vuoto singolare ci aveva persino spinti a porci la domanda, se non fosse del tutto sbagliato porre il quesito sulla restituzione in modo così aggressivo.
Ci ha fatto pensare soprattutto la risposta di Petra Raymond, direttrice del Goethe-Institut di Addis Abeba. Anche a lei avevamo chiesto un feedback sul nostro progetto:
(Jutta Wieser legge il messaggio) “In Europa, ovvero anche in Italia, esistono nell’ambito del dibattito sulla decolonizzazione diversi sforzi atti a riflettere sulle restituzione e a confrontarsi con il proprio passato coloniale. Vedo l’iniziativa del vostro museo in questa cornice. Dalla prospettiva etiope la situazione di partenza è diversa da altri Paesi africani che hanno invece preteso con veemenza proprio questo confronto con la parte a nord del mondo. Qui, per la narrativa della propria identità nazionale, è proprio importante l’aspetto di non essere stati colonizzati e per questo si parla di periodo di occupazione italiana. Partire da un indumento cerimoniale etiope per la riflessione sul passato coloniale italiano, verrebbe interpretato qui come un errore di partenza o come un approccio non corretto.”
AK: Nella nostra intervista a Gaia Delpino e Rossana Di Lella del Museo delle Civiltà di Roma abbiamo dato voce ai nostri dubbi:
O-Ton Ariane Karbe: Vorrei chiedervi qualcosa riguardo al nostro progetto perché sto riflettendo molto su questo punto negli ultimi tempi. Perché ci stiamo chiedendo se il mantello debba essere ritornato all’Etiopia. Questa domanda è diventata sempre più importante perché è una provocazione e tale dovrebbe essere. Nessuno ci ha chiesto di restituirlo. Siamo noi che ci stiamo ponendo la domanda. Da una parte penso che sia una nostra responsabilità, perché se li consideriamo come oggetti sottratti indebitamente, penso che sia responsabilità delle persone che hanno rubato offrire di dare indietro quello che hanno preso se vogliono che sia fatta giustizia. Dall’altra sto diventando sempre più insicura e mi sto chiedendo… Come posso descriverlo? Perché finora non abbiamo avuto reazioni da parte etiope e quindi penso che una parte del motivo possa essere che il mantello non è poi così importante. Ma mi chiedo anche se richiederlo in modo così attivo, non voglio insistere, non voglio continuare a chiedere ‘Lo rivolete indietro?’ Perché, se non lo vogliono, va bene così. Capite cosa intendo?”
O-Ton Rossana Di Lella: È molto interessante questo lavoro che state facendo di messa in discussione delle vostre stesse soluzioni nelle prospettive di lavoro. Veramente interessante, perché in qualche modo siamo sintonizzati con voi. Perché da un lato, quando vi dicevamo che non ci sono attualmente delle richieste di restituzione, questo non vuol dire per noi che non ci poniamo, come voi, il problema della restituzione. Ovviamente, dal punto di vista formale, dal punto di vista di una restituzione fisica degli oggetti non possiamo prendere una posizione aperta ufficiale…
O-Ton Hannes Obermair: Certo, certo…
O-Ton Rossana Di Lella: …che va nella direzione di un’effettiva restituzione. Ma possiamo fare un lavoro di riflessione collettiva e ponendo questi temi anche a visitatori e persone che non c’hanno mai pensato, perché nella loro vita non hanno mai avuto esperienza diretta nei contesti di questo tipo. Quindi, lavorare anche su un piano di presa di coscienza, perché sappiamo che la restituzione, come appunto dicevate anche voi, è un elemento di un processo molto più complesso che prevede un piano politico, prevede un piano simbolico. Non è l’oggetto di per sé che viene trasferito, la cosa importante. Perché nel momento in cui l’elemento viene trasferito da un paese all’altro significa che ci sono le condizioni da una parte dall’altra perché quell’oggetto col trasferimento abbia un valore. Se c’è questo, allora il trasferimento fisico restituisce effettivamente qualcosa perché crea un nuovo equilibrio nelle parti. Da un punto di vista simbolico, politico, educativo etc. Se si tratta di una forzatura, di una cosa che viene solo da un lato, non so come dire…, allora il processo è meno completo. E quindi capisco le vostre difficoltà rispetto alla no-reazione della parte etiopica.
O-Ton Hannes Obermair: Certo…
AK: Quindi al momento non ci sono domande concrete di restituzione al museo, ma anche Gaia e Rossana si stanno confrontando comunque con il tema, appunto anche per sviluppare una propria posizione. E lavorano anche artiste e artisti, storici e storiche e giornaliste e giornalisti. Perché il Museo delle Civiltà, al contrario di Villa Freischütz, è un museo statale e non una fondazione privata, e quindi il museo non potrebbe decidere per conto suo in merito alle restituzioni.
Torno ancora al commento di Petra Raymond. Anche se la resistenza contro l’occupazione italiana non ha mai del tutto capitolato, come abbiamo raccontato nell’ultimo episodio, e non si è mai stabilita una completa, stabile amministrazione coloniale in Abissinia, NOI ascriviamo la guerra in Abissinia dal 1935 al 1941 alla storia coloniale italiana. E questo perché l’intento di Mussolini era di creare un impero coloniale a seguito dell’occupazione. A NOI sembra importante portare in PRIMO PIANO l’aspetto coloniale della guerra in Abissinia, perché l’Italia viene ancora oggi ampiamente trascurata quando si tratta di storia coloniale.
Lo storico Markus Wurzer lo descrive così:
O-Ton Markus Wurzer: In Italia questa memoria coloniale è ampiamente taciuta, non se ne parla spesso apertamente e i ricordi sono ancora fortemente improntati a miti come quello degli “Italiani brava gente”, quindi all’immagine che gli italiani e le italiane si siano comportati, nel loro ruolo di signori e signore coloniali, in modo molto più umano di tedeschi, britannici o francesi. Questo mito e le figure e le immagini su cui è costruito, hanno radici nella propaganda fascista del periodo tra le due Guerre, quando il regime fascista ha tentato di legittimare il proprio progetto coloniale in Africa settentrionale e orientale come missione civilizzatrice, e allo stesso tempo di screditare i grandi imperi coloniali, come quello francese o britannico, attribuendo loro l’intento di sfruttare le colonie. Il fatto che non fosse per nulla diverso per il regime fascista e che si trattasse di trovare nuovo “spazio vitale” per la popolazione italiana, viene scopato sotto al tappeto. Al contrario, il regime fascista tentò di vendere questo progetto coloniale in Africa settentrionale e orientale come una missione di civiltà che, paradossalmente, avrebbe favorito soprattutto le popolazioni locali. Che la realtà fosse ovviamente completamente diversa e che fosse caratterizzata invece da violenza, violenza di massa, e sì, che si trattasse proprio di violenza genocidiale, non solo nella guerra in Abissinia, ma anche nella Libia degli anni Venti e Trenta, viene facilmente dimenticato. I veterani di lingua tedesca di questa guerra in Etiopia, si sono sempre impegnati a parlarne, quando ne hanno parlato – non ne parlavano spesso né pubblicamente, solo a partire dagli anni 2000 in realtà – ne hanno parlato come della guerra italiana, come guerra fascista, con la quale non volevano avere nulla a che fare, dalla quale hanno cercato di distanziarsi e a cui avrebbero partecipato più come osservatori esterni, avventurieri. In questa narrativa si collocano anche le immagini che hanno portato a casa, immagini di propaganda, che mostrano i paesaggi esotici, gli animali e la popolazione. Come a dire: ero lì solo come un avventuriero a un safari, la guerra l’hanno combattuta gli italiani. E questo porta naturalmente nei ricordi a un’esclusione, o al fatto che nei ricordi famigliari, il colonialista sudtirolese sia sempre stato un buon signore delle colonie.
O-Ton Ariane Karbe: È assolutamente interessante. Perché quando questo mito della “brava gente” viene portato avanti da parte italiana, fa sempre parte di questa narrazione: abbiamo portato la civiltà, volevamo fare del bene. E poi da parte sudtirolese: ma noi eravamo quelli veramente buoni. (ride)
O-Ton Markus Wurzer: Esatto.
O-Ton Ariane Karbe: Ecco, questo dimostra chiaramente che questi racconti devono essere sempre circostanziati per capire quale funzione abbiano avuto. Cosa devono apportare, perché noi ci si possa riconoscere nella nostra immagine di noi stessi?
AK: Una visitatrice di nome Fanaye, dopo aver guardato il materiale sul nostro progetto alla pagina web di Villa Freischütz, ci ha lasciato questo commento:
(Jutta Wieser legge il testo) “Adesso Vi racconterò quello che non trovate nei Vostri libri di storia. Mio nonno è stato un guerrigliero della resistenza contro Graziani e Badoglio. Quando i generali vollero prendere possesso di Addis Abeba, trovarono una città data alle fiamme. Perché prima mio nonno e Ras Abebe Aregay avevano dato fuoco alle molte case, prima di lasciare la città insieme a tutti gli uomini abili al combattimento. Graziani non ha preso bene l’incendio. Era furioso e diede l’ordine di massacrare tutti gli alti funzionari. La maggior parte di loro erano uomini anziani o fragili che avevano prestato servizio sotto l’imperatore Menelik II. Uno dei fucilati era il padre di mia nonna. Sua moglie e i figli, che furono trovati mentre pregavano in una chiesa, vennero spediti sull’isola di Asinara (come bottino di guerra?) dove rimasero fino alla fine della guerra. Forse il vostro indumento cerimoniale, ‘il mantello etiope’, apparteneva a uno dei massacrati. Nel qual caso, del sangue invisibile lo sta macchiando. Per questo vi consiglio di ritornare il mantello al Paese cristiano.”
AK: Petra Raymond aveva concluso la sua e-mail con queste parole:
(Jutta Wieser legge il testo) “Per la questione, se il mantello debba essere ritornato oppure no, dalla prospettiva etiope è importante qualcos’altro, ovvero a chi fosse appartenuto, da cui si potrebbe capire se una restituzione potrebbe essere per loro interessante.”
AK: In effetti la domanda aveva perseguitato anche noi. Ma solo pochi giorni fa mi è venuta in mente un’idea su come poter determinare in modo ancora più preciso l’origine del mantello. Come vi abbiamo detto, nella collezione di Villa Freischütz si trovano anche tre spade di provenienza abissina. Hannes, Herta ed io le abbiamo guardate diversi mesi fa, ma senza riservare loro una particolare importanza. Avevo notato chiaramente anche le iscrizioni in amarico su due delle armi, ma all’epoca avevo pensato, aha, non saranno mica i nomi degli antichi proprietari. E pochi giorni fa ho pensato: e se invece lo fossero?
Ho postato fotografie delle spade su Twitter e Sophia Dege-Müller, un’esperta di manoscritti etiopi, ha subito tradotto una delle iscrizioni: c’era scritto Ras Tessema Nadew. Ras Tessema Nadew! Un importante generale, politico e stretto fiduciario di Menelik II. L’incisione sull’altra spada era difficile da decifrare, forse per questo nessuno su Twitter ha tentato una traduzione. Abbiamo quindi dato il testo in incarico a una traduttrice.
O-Ton Ariane Karbe: E adesso diventa ancora più entusiasmante. Adesso controllo la posta per vedere cosa ci ha svelato la traduttrice sull’altra spada. Apro la mail… aha… okay, qui parla di un marchio. Ma l’importante per noi è se ci sia un’iscrizione personale, con un nome. E infatti. Ecco, adesso sta diventando davvero emozionante, perché adesso abbiamo potuto identificare anche un secondo proprietario. Perché sulla sciabola non si trova solamente il marchio di chi l’ha forgiata – Henry Wilkinson – ma anche a tutti gli effetti il nome dell’antico proprietario: Fitawrari Habte Giyorgis.
AK: Fitawrari Habte Giyorgis Dinagde è stato ministro della guerra sotto Menelik II, sotto la sua successora Zauditu e il successore di QUESTA Haile Selassie. Potrebbe assolutamente essere che il mantello si accompagni a una delle armi e che quindi sia appartenuto a Tessema Nadew o a Fitawrari Habte Giyorgis Dinagde. Riporta il mantello nelle vicinanze dell’imperatore Menelik, vi ricorderete che da questa supposizione è partito l’intero progetto, se si potesse trattare, quindi, di un indumento cerimoniale dell’imperatore d’Abissinia. Nel corso del progetto avevamo lentamente messo da parte questa ipotesi, ma oggi non la riteniamo più del tutto impossibile, per via delle spade, anche se improbabile.
Ancora più importante è che sia Habte Giyorgis Dinagde, sia Tessema Nadew avevano partecipato alla battaglia di Adua nel 1896. L’Italia, infatti, aveva già tentato nel XIX secolo di conquistare l’Abissinia, fallendo miseramente. Lavare “l’onta di Adua” era uno dei motivi che Mussolini aveva addotto per giustificare l’attacco all’Etiopia nel 1935. Se il mantello cerimoniale e le spade risalgono a questa epoca, allora sarebbero simboli, in un primo momento, della vittoria dell’Abissinia sull’Italia e, in un secondo momento, attraverso l’impossessamento da parte di Enea Navarini, della temporanea sconfitta del Paese africano.
Forse queste evidenze rendono il mantello più interessante da una prospettiva etiope, perché così, insieme alle due spade, potrebbe simboleggiare per l’Etiopia il proprio successo nella lotta contro la colonizzazione.
Si fa pressante la domanda su quanti oggetti coloniali siano ancora presenti nei musei europei, di cui nessuno sa NIENTE. Un paio di giorni fa mi ha raggiunta un messaggio di Frank Steinheimer, direttore del magazzino centrale delle collezioni di scienze naturali di Halle, cui avevo segnalato il nostro podcast. Mi ha riferito che nella soffitta dell’ex Istituto zoologico aveva appena trovato qualcosa:
O-Ton Frank Steinheimer: Cara Ariane, improvvisamente il tuo podcast è diventato di stringente attualità, dopo che abbiamo rifatto il tetto e sotto la cima della nostra soffitta abbiamo ritrovato diversi scheletri umani. All’inizio non mi sono fatto molti pensieri, ed ho immaginato che provenissero da un cimitero europeo. Ma dopo averli analizzati geneticamente, abbiamo potuto riscontrare che si trattava di cinque scheletri maschili e tre femminili, e tra le altre cose è venuta fuori dalla soffitta una cassa con un’etichetta che riportava: “Maka, Gallaland, Abissinia.” E ci è risultato subito evidente che i nostri scheletri appartenevano all’etnia Maca del gruppo Oromo, che oggi vive in Etiopia. E improvvisamente ci ha assaliti la domanda, non soltanto su cosa si debba o voglia o possa fare con un mantello, ma anche con questi otto scheletri, che volentieri riaccompagneremmo indietro. Anche in questo caso è difficile trovare una persona di riferimento e sapere con esattezza se gli otto scheletri oggi sarebbero benvenuti in Etiopia. Quindi grazie al tuo podcast mi sono avviato su una strada, che tu hai già un po’ spianato, e sono molto curioso di sapere come andrà avanti.
AK: Nel nostro progetto siamo partiti con una domanda, su quale storia si nascondesse dietro il mantello etiope. Allo stesso tempo, noi team di Villa Freischütz, volevamo elaborare un nostro posizionamento rispetto agli oggetti museali di origine coloniale. Hannes ed io eravamo propensi ad una restituzione del mantello, anche se non eravamo ancora in grado di ricostruire le circostanze che lo hanno portato in nostro possesso, se si fosse trattato di un dono o di una ruberia. Anche se si fosse trattato realmente di un regalo, come avrete sentito nello scorso episodio. Perché anche quello sarebbe stato maturato all’interno di un contesto coloniale e perché pensiamo che simili gesti di buona volontà potrebbero contribuire a guarire il comune passato di violenza condiviso dall’Etiopia, dall’Italia e dal Sudtirolo.
Decisivo però è il parere del consiglio direttivo della fondazione Navarini-Ugarte. Questa domanda è diventata improvvisamente molto importante, da ieri per essere precisi. Perché da ieri la possibile restituzione a cui ci stiamo avvicinando da mesi nei nostri pensieri, sembra tutt’a un tratto essere diventata molto più concreta. Tormentata dall’assenza di reazioni da parte etiope, qualche giorno fa ho pensato a chi avrei ancora potuto contattare. Mi è venuto in mente il giornalista Andrew Heavens, che al momento sta preparando un libro sugli oggetti d’arte etiopi trafugati e che avevo scoperto tramite Twitter. Gli ho scritto per chiedergli come mai, secondo lui, le reazioni etiopi fossero così contenute. Per via della guerra civile, mi ha risposto. E mi ha inoltrato il contatto del
ricercatore sull’Etiopia Alula Pankhurst, che attualmente ha seguito la restituzione di sedici oggetti dall’Inghilterra all’Etiopia. Ho scritto ad Alula con la sensazione di aver portato il progetto ad una buona conclusione, anche se non avesse risposto. Semplicemente perché sapevo che l’informazione con lui sarebbe stata in buone mani. Se non avesse reagito, sarebbe stato per dei buoni motivi. Ieri ci ha risposto che caldeggerebbe una restituzione e potrebbe aiutarci. Adesso, dopo aver registrato questa serie e aver lasciato lo studio di registrazione con uno sguardo verso le Dolomiti, mi siederò in macchina con Hannes e partiremo alla volta di Villa Freischütz. Lì parleremo con i membri del consiglio direttivo della Fondazione Navarini-Ugarte riguardo a una possibile restituzione. Come decideranno? Il mantello etiope tornerà veramente nella sua vecchia patria?
CANZONE DI MARION MORODER “Un lungo viaggio”
AK: La canzone è stata scritta e composta da Marion Moroder. Un sentito grazie a Jutta Wieser per la lettura dei messaggi, al servizio di traduzioni Comtext Fremdsprachenservice per la traduzione del testo sulla spada e a tutti i e tutte le partner di intervista.